Marta Tibaldi
Jung e la scoperta dell'alchimia
Nei suoi ricordi Jung racconta di un sogno fatto nel 1926 che anticipò il suo incontro con l’alchimia.[1] All’epoca egli non aveva una grande considerazione dell’arte alchemica, che gli appariva “piuttosto marginale e ridicola”[2]. Dell’alchimia aveva potuto apprezzare soltanto il punto di vista anagogico, il cui significato spirituale era stato messo in evidenza in Probleme der Mystik und ihre Symbolik[3] dallo psicoanalista viennese Herbert Silberer, suo collega. Quest’ultimo era morto suicida a quarant’anni e Jung ritenne che la sua morte e il suo scritto esprimessero il medesimo problema: “egli vide le cose, ma non le visse”,[4] intendendo con queste parole che Silberer non avesse còlto “i tesori che [gli scritti alchemici] nascondono”, ovvero le dinamiche di trasformazione della personalità e del rapporto con l’Anima mundi, cui essi alludono simbolicamente.
Ma vediamo ora il sogno:
Ero nel Sud-Tirolo, in tempo di guerra. Mi trovavo sul fronte italiano e rientravo dalle prime linee con un piccolo uomo, un contadino, sul suo carro tirato a un cavallo. Intorno esplodevano granate, e mi rendevo conto che dovevamo affrettarci il più possibile, perché c’era pericolo.
Dovevamo attraversare un ponte e poi passare attraverso un tunnel la cui volta era stata parzialmente distrutta dalle granate. Arrivando alla fine del tunnel vedevamo dinanzi a noi un paesaggio soleggiato, e riconoscevamo la regione veronese. La città era ai miei piedi, radiosa nella luce del sole. Ne provavo sollievo, e avanzavamo nella verde, fertile pianura lombarda. La strada portava attraverso un’incantevole campagna primaverile: vedevamo i campi di riso, gli olivi, le vigne. Poi, lungo la strada, diagonalmente, vedevo un grande edificio, un castello di grandi proporzioni, piuttosto simile a un palazzo ducale dell’alta Italia. Era un tipico maniero con molte dipendenze e costruzioni laterali Proprio come al Louvre, la strada passava davanti al castello attraverso una grande corte. Io e il piccolo contadino giungevamo a un portone, e da qui potevamo vedere di nuovo, attraverso un secondo portone all’estremo opposto, il paesaggio soleggiato. Mi guardavo intorno: alla mia destra era la facciata del maniero, alla mia sinistra le stanze della servitù e le stalle, i granai, e altri edifici minori, allineati.
Appena giungevamo nel bel mezzo della corte, dirimpetto all’entrata principale, avveniva qualcosa che non ci aspettavamo: con un sordo fragore tutti e due i portoni si chiudevano. Il contadino balzava da cassetta, ed esclamava: “Ora siamo prigionieri del secolo XVIII!”. Rassegnato, pensavo: “Già, è così! Ma che cosa si deve fare? Ora saremo prigionieri per anni!” Poi mi veniva un pensiero consolante: “Un giorno, dopo anni, sarò di nuovo fuori.”[5]
Fu la successiva lettura de Il Segreto del fiore d’oro, un testo alchemico cinese, donatolgi nel 1920 dal sinologo Richard Wilhelm, che spinse Jung a interessarsi agli scritti degli alchimisti, riconoscendone la ricchezza simbolica. All'epoca la curiosità nei confronti dell’alchimia spinse Jung a farsi mandare da un libraio di Monaco tutti i testi reperibili sull’argomento, anche se il primo che gli fu spedito, Artis Aurifera Volumnia Duo (1953), lo lesse soltanto due anni dopo. La posizione di Jung nei confronti dell’alchimia continuava ad essere ambivalente, come egli stesso ebbe a dichiarare: “I testi mi davano ancora l’impressione di un’evidente assurdità, ma qua e là c’erano passi che mi sembravano significativi, e talvolta trovavo anche affermazioni che ritenevo di poter capire.”[6] . Come era accaduto durante la crisi che segnò la sua esistenza, dopo la rottura del suo rapporto personale e scientifico con Freud, crisi che egli superò con metodo e disciplina[7], Jung scelse di continuare a leggere e a studiare ciò che ancora non capiva, fino a quando non si rese conto che si trattava di un linguaggio altamente simbolico e che espressioni particolari quali “solve et coagula”, “prima materia”, “lapis”, “Mercurius” etc. si ripetevano in modo regolare con un significato specifico. Affascinato da questa scoperta, ricordò il sogno del 1926, nel quale era prigioniero del secolo XVII, e ne capì il significato: doveva studiare l’alchimia a fondo, risolvendo l’enigma di quel linguaggio sconosciuto con metodo filologico: “[…] il caratteristico linguaggio dell’alchimia un po’ alla volta mi rivelò il suo significato. Fu un lavoro che mi assorbì per oltre dieci anni.”[8] Scoprì così che le dinamiche inconsce che aveva sperimentato negli anni della sua crisi personale e scientifica e i processi alchemici dei testi che aveva letto descrivevano il medesimo percorso trasformativo e condividevano entrambi due finalità: il salvataggio dell’anima umana e la salvazione del cosmo.
Fu soltanto con la scrittura di Mysterium Coniunctionis, sua ultima fatica e summa teorica[9], che Jung sentì di avere concluso il confronto tra l’alchimia e la sua psicologia complessa[10]: “[…] il mio compito era adempiuto la mia opera terminata. […] raggiunsi allo stesso tempo i limiti di ciò che potevo afferrare scientificamente, il trascendente, l’essenza dell’archetipo in sé, su cui non si possono più fare affermazioni scientifiche. […] ciò che dovevo dire, è stato detto.”[11]
[1] Cfr. C.G. Jung, Sogni, ricordi e riflessioni di C.G. Jung (a c. di A. Jaffé), Rizzoli, Milano 1978, pp. 247-248.
[1] Ivi, p. 249.
[1] A. Silberer, Probleme der Mystik und ihre Symbolik, Wien 1914 (tr. It. Problemi della mistica e del suo significato simbolico, La Biblioteca di Vivarium, Milano 1999).
[1] C.G. Jung, Sogni, ricordi, riflessioni di C.G. Jung, cit., p. 249.
[1] Ivi, pp. 247-248 (il corsivo è mio).
[1] Ivi, p. 249.
[1] Cfr.M. Tibaldi, “Jung a confronto con l’inconscio: una descrizione autobiografica dell’immaginazione attiva”, Studi Junghiani,
[1] Ivi, p. 250.
[1] C.G. Jung, Mysterium Coniunctionisi, OC14/1 e 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1979.
[1] Ivi, pp. 268-269.
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