lunedì 7 luglio 2014

Roma, città da amare o da odiare?



Marta Tibaldi
Roma, città da amare o da odiare?


Ho iniziato a detestare Roma all'età di undici anni. La mia famiglia era appena rientrata nella capitale dopo essersi trasferita per un anno in una città di mare, dove io avrei lasciato per sempre il cuore.

"[Roma] offre generosamente un palcoscenico per qualsiasi parte (tranne se stessi)" scrive Filippo La Porta in Roma è una bugia (Laterza 2014, p. 114), la sua narrazione della città eterna, che ai suoi occhi è un misto di "disfacimento e vitalità". A proposito del "non potere essere se stessi", La Porta ricorda anche le parole di Nicola Chiaromonte: "questa dimensione romana dello spazio, così generosa, priva di ogni costrizione, che non rifiuta nulla all'individuo, né gli chiede nulla, se non per mettersi una maschera...c'è posto per il Fanatico e per il Cinico. Solo chi vuol essere se stesso ne resta escluso" (p. 23).

Federico Fellini, che  molto ha vissuto a Roma e a Roma è morto (male), vede la città come "una madre ideale, perché indifferente. E' una madre che ha troppi figli, e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. [...] Con il suo pancione placentario e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo, una vera maturazione. Qui non ci sono nevrotici ma nemmeno adulti. E' una città di bambini svogliati, scettici e maleducati; anche un po' deformi, psichicamente, giacché impedire la crescita è innaturale" (F. Fellini, Fare un film, Einaudi, 1983, pp. 144-145).

Roma è dunque una città-palcoscenico, una città che esclude chi vuole essere se stesso, una città che non permette di crescere e che immobilizza nella dimensione infantile?

(foto alumnibocconi.it)

Quanta distanza ci può essere tra questo modo di essere e quello di chi ha fatto della conoscenza di sé e della realizzazione della personalità totale, obiettivi portanti della propria esistenza? Quale disagio, ma anche quale spinta trasformativa, possono nascere da questa tensione di opposti?

In Sogni, Ricordi, Riflessioni, il racconto della propria vita raccontato ad Aniela Jaffé, Jung scrive: "La mia vita è la storia di un'autorealizzazione dell'inconscio" (Rizzoli, Milano 1978, p. 27), intendendo con queste parole che "tutto ciò che si trova nel profondo dell'inconscio tende a manifestarsi al di fuori, e la personalità, a sua volta, desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci, che la condizionano, e sperimentano se stessa come totalità" (ibidem).

Credo che il mio non-amore per Roma sia  espressione di questa tensione che desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci e di quella mia strana antropologia interna - un po' tedesca, un po' cinese e ben poco romana - che mi ha spinto a lavorare e a vivere in Cina: "L'acquisire una sempre maggior familiarità con lo spirito orientale potrebbe indicare simbolicamente l'inizio di una nostra presa di contatto con le parti di noi che ci sono ancora estranee" (C.G. Jung-R. Wilhelm, Il segreto del fiore d'oro, Boringhieri, Torino 1981, p. 58).

Oggi, pur riconoscendo l'abbagliante bellezza di questa città, condivido con Filippo La Porta la considerazione che "Roma sarebbe forse  più bella se disabitata, una città d'arte congelata in una sua perfezione classico-funerea" (p. 40). D'alto canto con grande soddisfazione riconosco come mia anche una famosa constatazione junghiana sulla necessità di vivere vicino all'acqua: "Fin dal principio tenni per fermo che avrei costruito vicino all'acqua. Ero sempre stato particolarmente attratto dall'incantevole scenario della parte superiore del lago di Zurigo, e così nel 1922 acquistai il terreno a Bollingen. E' situato nel contado di San Meinrad, ed è vecchia terra consacrata, essendo appartenuta in passato al monastero di San Gallo." (C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 270).
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(foto comuneimperia.it)

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