Tra dire e fare c’è di mezzo il mare (della Cina?)
Il rapporto che i cinesi hanno con le parole e con i fatti
tende a essere diverso da quello degli Italiani.
A Taipei (Taiwan) ho conosciuto una signora che all’epoca del
nostro incontro non parlava inglese. Per comprenderci abbiamo avuto bisogno di
un’interprete. La nostra conversazione è stata alquanto paradossale: io
italiana parlavo inglese, la signora taiwanese parlava mandarino, la mediatrice
taiwanese traduceva in inglese a me
italiana il mandarino della signora taiwanese. In quell’occasione ho pensato che
ciò che ci dicevamo probabilmente non fosse del tutto corrispondente a ciò che volevamo
dire, ma malgrado la babele linguistica ci siamo comprese e quella strana conversazione
ha prodotto sorprendenti effetti trasformativi.
Dopo sei mesi io e la signora taiwanese ci incontriamo di
nuovo. Questa volta la signora si presenta da sola e parla in un inglese fluente.
Che cosa è successo? Subito dopo il nostro primo incontro si è
trasferita in America per imparare l’inglese e ora ha deciso di
iniziare la propria formazione analitica.
Tornando in Italia il contrasto tra il fare della signora taiwanese
e il parlare degli italiani mi balza agli occhi. L’impressione che ne traggo è
che da noi ci sia una tendenza alla superfetazione linguistica e che tra il nostro
“dire” e il “fare” cinese ci sia, come recita il proverbio, “un mare”.
Nella psicologia del profondo l’immagine del mare è associata
a ciò che è inconscio ed è simbolo di potenzialità ma anche di incertezza e di
indecisione: “Tutto nasce dal mare e tutto vi ritorna: luogo delle nascite,
delle trasformazioni e delle rinascite; acqua in continuo movimento, il mare
rappresenta simbolicamente uno stato transitorio fra le possibilità ancora da
realizzare e le realtà già realizzate, una situazione di ambivalenza che è
quella dell’incertezza, del dubbio, dell’indecisione e che può concludersi bene
o male” (J. Chevalier, A. Gheerbrandt, Dizionario
dei simboli, vol. 2, Bur, Milano 1987, p. 67).
“Il mare” del proverbio italiano potrebbe rimandare dunque
alle potenzialità inconsce che sono presenti nelle situazioni non ancora
definite, ma nello stesso tempo anche all’incertezza a cui quelle situazioni sono associate. Se in Oriente
si tende a rispondere al “mare” inconscio in modo operativo e fattuale, in
Italia sembrano essere privilegiate le parole, a volte anche a detrimento
dell’azione.
Nel 1928 durante il proprio esperimento di confronto con
l’inconscio, Jung dipinse il mandala
con il castello giallo, un dipinto che a suo dire aveva “qualcosa di cinese” (Liber Novus, immagine 163). Subito dopo,
il sinologo Richard Wilhelm inviò a Jung Il
segreto del fiore d’oro, un antico testo sapienziale cinese, chiedendogli di
commentarlo. Jung fu molto colpito dal parallelismo tra il percorso di conoscenza
descritto nel testo cinese e il confronto con l’inconscio di cui egli stesso
era testimone attraverso le proprie immagini e fantasie. In quell’occasione
Jung scrisse a Wilhelm: “Il destino sembra averci assegnato il ruolo di due
pilastri che reggono il ponte tra Oriente e Occidente” (S.Shamdasani, Liber Novus. Il "Libro Rosso" di C.G. Jung, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 218).
L’incontro di Jung con la cultura cinese rappresentò un vero
e proprio punto di svolta nella vita e nell’opera del padre della psicologia
analitica. Se fino ad allora Jung si era
confrontato con l’inconscio soprattutto in termini interni, a seguito dell’incontro
con la cultura cinese, egli decise di descrivere il processo di individuazione
– ovvero il processo psicologico che tende alla realizzazione dell’intera
personalità - attraverso la psicologia comparata, parlandone in termini
indiretti. Jung si rese conto che in questo processo, in qualunque modo esso avvenga, è fondamentale che la coscienza si differenzi
dai contenuti inconsci, prenda posizione nei loro confronti e si assuma la
responsabilità della scelta: “Alla resa dei conti – scrive Jung nella propria
autobiografia - il fattore decisivo è sempre la coscienza, che è capace di
intendere le manifestazioni dell’inconscio e prendere posizione difronte ad esse” (C.G.
Jung, Ricordi, sogni, riflessioni di C.G.
Jung, Rizzoli, Milano 1961, p. 230).
Attraverso la sua esperienza e la sua storia Jung ha
dimostrato che “dire” e “fare” sono due possibili risposte al “mare” delle
potenzialità inconsce. Ciò che fa la differenza è la scelta responsabile e
l’assunzione di responsabilità nei confronti dell’una o dell’altra modalità,
affinché il “dire” non sia un parlare sterile e l’azione non sia un “agito” (acting out), privo di riflessione
critica.
La psicologia comparata rende maggiormente consapevoli delle
caratteristiche della cultura di appartenenza, dà visibilità ai diversi stili
di conoscenza e di significato (cfr. F. Jullien, L’ansa e l’accesso. Strategie del senso in Cina. Grecia, Mimesis
Edizioni, Udine 2011), fa decidere più responsabilmente tra “dire” e “fare”,
tenendo conto anche del “mare”.
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(foto di Marta Tibaldi)