Una delle sofferenze più grandi dei sopravvissuti alla bomba atomica è quella di non essere riconosciuti come vittime dei suoi effetti: "quello che viene dalle armi nucleari è infatti un terrore che non ha fine, e' la paura per qualcosa che, nel caso degli uomini, resta nell'organismo, e che nel caso della terra permane nelle sue viscere."
Queste parole sono di Kyoko Hayashi, vittima quattordicenne del bombardamento di Nakasaki del 9 agosto 1945, una delle più grandi scrittrici giapponesi contemporanee, autrice di Nagasaki. Racconti dall'atomica, appena tradotto in italiano e pubblicato dall'editore Gallucci.
A distanza di settant'anni da questo "crimine contro il genere umano", i "racconti dell'atomica" di Hayashi fanno vivere al lettore ciò che accadde quella mattina di agosto, in cui il cielo era sereno e faceva caldo. L'autrice dà immagini e parole alla sconvolgente esperienza della bomba atomica e, in senso più generale, alla sofferenza causata da azioni umane distruttive e testimonia che con la bomba atomica "l'essere umano ha superato un confine proibito ed è questo il vero tema così difficile da affrontare." (p. 214)
Paura, orrore, senso di colpa, confusione, disorientamento, tentativi di resilienza - commovente la storia di Kinuko che "aveva messo le ossa della madre e del padre in un barattolo vuoto e se lo portava a scuola tutti i giorni" (p. 83) - casualità, disperazione e molte altre sono le emozioni raccontate dai personaggi di Hayashi, tutti accomunati dallo stupore doloroso per l'enormità dei fatti accaduti: "Le vittime della bomba atomica, prima ancora di essere vittime della guerra o dello scontro generato tra nemici e alleati, sono vittime del genere umano." (p. 216)
L'ordine naturale è sconvolto e le vittime della bomba atomica sono chiamate a confrontarsi con l'impossibile e l'impensato, come ad esempio i vermi che mangiano i corpi feriti dalle schegge e resi molli dalle radiazioni: "Al centro della schiena di Yoko era conficcato un frammento di quattro o cinque centimetri. Wakako lo tirò via velocemente, attenta a non toccare gli altri pezzetti. Lanciando un urlo, Yoko spinse via Wakako, che perse l'equilibrio e finì per appoggiare la mano in mezzo alla schiena di Yoko. Yoko ansimò e si raggomitolò ancora di più. In quel momento dalla sua schiena cadde qualcosa: era una larva." (p. 51)
L'ordine naturale è sconvolto e le vittime della bomba atomica sono chiamate a confrontarsi con l'impossibile e l'impensato, come ad esempio i vermi che mangiano i corpi feriti dalle schegge e resi molli dalle radiazioni: "Al centro della schiena di Yoko era conficcato un frammento di quattro o cinque centimetri. Wakako lo tirò via velocemente, attenta a non toccare gli altri pezzetti. Lanciando un urlo, Yoko spinse via Wakako, che perse l'equilibrio e finì per appoggiare la mano in mezzo alla schiena di Yoko. Yoko ansimò e si raggomitolò ancora di più. In quel momento dalla sua schiena cadde qualcosa: era una larva." (p. 51)
Leggo i racconti di Hayashi e sono colpita, una volta di più, dalla capacità, tutta e terribilmente umana, di generare sofferenza e danni irreversibili ad altri esseri umani (ma anche agli animali e alla natura): un potenziale umano di morte che spesso è messo in atto nell'inconsapevolezza o nella negazione della sua portata di danno e di sofferenza, o all'estremo opposto, nella volontà consapevole di creare quella sofferenza e quel danno, quella distruzione fisica e psichica.
Penso a questi atti e mi chiedo quanto essi possano essere mossi dalla massiccia proiezione di emozioni di fondo non elaborate quali la nostra vulnerabilità, il senso di impotenza e la nostra angoscia esistenziale. In questo senso Nagasaki settant'anni dopo può essere un invito a ripensare - o forse anche a pensare per la prima volta - il rapporto che abbiamo (o non abbiamo) con il male umano che ci abita, assumendocene la responsabilità morale: "Sono passati settant'anni dalla fine della guerra e in tutti questi anni ho continuato a vivere con 'un nemico interno'. Questa espressione si riferisce alle sostanze radioattive assorbite dai superstiti di Hiroshima e Nagasaki, dalle vittime di seconda generazione nonché da tutti coloro che sono stati coinvolti in incidenti nucleari. Le sostanze radioattive assorbite dall'organismo aderiscono agli organi interni e continuano a emettere radiazioni, anche se in quantità minima. In questo senso si tratta di un 'nemico interno' che ci accompagna. È un problema che si ricollega alla vita dei nostri figli, dei nostri nipoti,alla sopravvivenza della specie. Non è un problema ideologico. Non è un problema che riguarda gli Stati. È un problema che riguarda ciascuno di noi. Per questo motivo, da superstite di Nagasaki, continuo a raccontare il 9 agosto 1945." (p.11)
A noi che non eravamo a Nagasaki il dovere di condividere il dolore dei sopravvissuti, accogliendone il grido: "Non sono serviti a niente il 6 e il 9 agosto? Non è stato tratto nessun insegnamento dall'essere un Paese vittima della bomba atomica e dalla lunga esperienza dei sopravvissuti? Se tutto questo fosse servito a qualcosa, io e le altre vittime troveremmo un minimo di conforto. [...] Quello che ognuno di noi desidera [...] è essere riconosciuti come vittime sofferenti per gli effetti della bomba atomica." (p. 210 e p. 216)
Copyright 2015
Marta Tibaldi, Profilo professionale e pubblicazioni
Penso a questi atti e mi chiedo quanto essi possano essere mossi dalla massiccia proiezione di emozioni di fondo non elaborate quali la nostra vulnerabilità, il senso di impotenza e la nostra angoscia esistenziale. In questo senso Nagasaki settant'anni dopo può essere un invito a ripensare - o forse anche a pensare per la prima volta - il rapporto che abbiamo (o non abbiamo) con il male umano che ci abita, assumendocene la responsabilità morale: "Sono passati settant'anni dalla fine della guerra e in tutti questi anni ho continuato a vivere con 'un nemico interno'. Questa espressione si riferisce alle sostanze radioattive assorbite dai superstiti di Hiroshima e Nagasaki, dalle vittime di seconda generazione nonché da tutti coloro che sono stati coinvolti in incidenti nucleari. Le sostanze radioattive assorbite dall'organismo aderiscono agli organi interni e continuano a emettere radiazioni, anche se in quantità minima. In questo senso si tratta di un 'nemico interno' che ci accompagna. È un problema che si ricollega alla vita dei nostri figli, dei nostri nipoti,alla sopravvivenza della specie. Non è un problema ideologico. Non è un problema che riguarda gli Stati. È un problema che riguarda ciascuno di noi. Per questo motivo, da superstite di Nagasaki, continuo a raccontare il 9 agosto 1945." (p.11)
A noi che non eravamo a Nagasaki il dovere di condividere il dolore dei sopravvissuti, accogliendone il grido: "Non sono serviti a niente il 6 e il 9 agosto? Non è stato tratto nessun insegnamento dall'essere un Paese vittima della bomba atomica e dalla lunga esperienza dei sopravvissuti? Se tutto questo fosse servito a qualcosa, io e le altre vittime troveremmo un minimo di conforto. [...] Quello che ognuno di noi desidera [...] è essere riconosciuti come vittime sofferenti per gli effetti della bomba atomica." (p. 210 e p. 216)
Marta Tibaldi, Profilo professionale e pubblicazioni