Marta Tibaldi
Critica archetipica
Sebbene della critica archetipica si possano trovare esempi storici nelle opere di autori quali Vico, Goethe e Schelling, in letteratura essa indica il fenomeno letterario del XX secolo, noto anche con il termine di mitocritica, che si è affermato soprattutto tra gli anni Trenta e Cinquanta grazie ad autori che trassero ispirazione soprattutto dall’opera di Frazer e di Jung. L’antropologo inglese James Frazer, autore di The Golden Bough (1925), monumentale lavoro in dodici volumi, fu il primo a documentare in modo sistematico i fatti della vita primitiva, il complesso materiale mitologico delle cosiddette culture primitive, dandone una visione organica e comprensiva. Utilizzando un metodo fondamentalmente comparativo, dopo avere esaminato un vastissimo numero di miti provenienti da luoghi e da tempi diversi, Frazer rintraccia gli archetipi che caratterizzano i miti e i riti nelle diverse culture, mettendo in evidenza le somiglianze di base e suggerendo che il mito e il rito, sebbene nel tempo e nello spazio si manifestino in modo diverso, si strutturano comunque intorno a modelli ricorrenti. Dal canto suo, Carl Gustav Jung, il fondatore della psicologia analitica, nei venti volumi delle opere pubblicate e in numerosi scritti inediti teorizzò, tra l’altro, che la psiche inconscia è composta di un inconscio personale, prodotto della rimozione di elementi psichici incompatibili con la coscienza, e di un inconscio collettivo, “quella sfera della mitologia inconscia, le cui immagini primordiali sono patrimonio comune dell’umanità”. Quest’ultimo precede ogni esperienza individuale ed è sede degli archetipi, di quei patterns of behavior con cui l’essere umano entra in contatto attraverso le immagini, che ne sono la manifestazione visibile. In Über die Beziehung der analytischen Psychologie zum dichterischen Kunstwerk (1922) facendo un’esplicita differenza tra l’opera letteraria che attinge all’inconscio individuale e quella che scaturisce dall’inconscio collettivo, Jung dà dell’archetipo, ovvero della immagine primordiale (che per Jung prende anzitutto la forma di figura mitologica), la definizione di “figura, demone, uomo, o processo che si ripete nel corso della storia, ogniqualvolta la fantasia creativa si esercita liberamente”. Nel corso degli anni la teoria junghiana degli archetipi è stata oggetto di ampliamenti e revisioni, sia in direzione di un maggiore radicamento del concetto di archetipo nella sfera biologica, sia nella direzione opposta di un suo maggiore radicamento nella sfera mitologico-immaginale. Nel primo caso rientra il contributo di Anthony Stevens che, in Archetypes. A Natural History of the Self (1982) offre una tesi empirica all’esistenza degli archetipi, individuandone la base biologica e assimilandoli al concetto di struttura etologica ereditaria propria della moderna biologia; nel secondo, quello di James Hillman che, radicalizzando il significato mitologico dell’archetipo, propone un modello della psiche il cui soggetto principale sia l’Anima, la base poetica della mente che interconnette gli eventi in modo immaginale. Nella sua opera Hillman evidenzia le affinità che il concetto di mundus imaginalis, studiato dall’islamista Henri Corbin, ha con quello di archetipo junghiano, affermando che gli archetipi e le immagini archetipiche sono le trame invisibili della psiche umana e le direzioni immaginali lungo le quali rintracciare il senso metaforico degli eventi psichici e culturali.
In ambito letterario i primi esempi di critica archetipica stimolati dal lavoro di Frazer sono stati quelli di Jane Hellen Harrison, Gilbert Murray, Francis M. Cornford, noti come i Cambridge Ritualists ovvero la Cambridge Anthropological School. Questi autori provarono a guardare ai testi classici in modo nuovo sostenendo, ad esempio, che alla base del dramma e della poesia vi sia la narrazione mitica della vittoria della forza vitale sulla morte, così come essa si manifesta nel ciclo delle stagioni. L’accettazione dell’ipotesi junghiana dell’esistenza di uno strato collettivo della psiche inconscia invece ha stimolato soprattutto la ricerca e la descrizione di queste immagini primordiali sovrapersonali presenti in letteratura. Tra gli autori che si sono orientati in questo modo, sono da ricordare Maud Bodkin, Robert Graves, Joseph Campbell, George Wilson Knight, Richard Chase, Francis Fergusson, Philip Wheelwright e Northrop Frye. Essi interpretarono una vasta gamma di testi letterari alla luce delle somiglianze che questi ultimi presentavano con i personaggi, le narrazioni o le situazioni mitologiche, attribuendo al concetto di archetipo definizioni diverse e nel contempo cercarono di spingersi oltre lo studio della presenza e della funzione degli archetipi nel testo letterario per interrogarsi sulla più complessa questione della natura e dell’origine delle forme archetipiche stesse.
In Archetypal Patterns in Poetry. Psychological Studies of Imagination (1934) Maud Bodkin, che in area anglosassone è considerata, insieme a Northrop Frye, la maggiore rappresentante della critica archetipica di derivazione junghiana, spiega la teoria degli archetipi e dell’inconscio collettivo di Jung utilizzando esempi letterari e si propone di verificare l’ipotesi che, in particolare nella poesia tragica, si possano identificare temi dalla forma caratteristica, che persistono di epoca in epoca e che corrispondono a schemi emotivi della mente. Campbell (1904-1987) in The Power of Myth (19 89) sostiene che il vero significato del mito non è quello letterario o storico ma quello metafisico e psicologico e in The Hero with a Thousand Faces (1949) individua nel tema mitico del viaggio dell’eroe il mono-mito che sta alla base di ogni altra narrazione mitica. Il canadese Northrop Frye (1912- 1991) dal canto suo, in Anatomy of Criticism. Four Essays (1957), scrive il primo manifesto programmatico della ricerca mitico-archetipica e fa il maggiore sforzo di sistematizzazione delle intuizioni della critica archetipica, collocandole in un più vasto sistema di ipotesi sulla letteratura e sulla critica letteraria. Nella sua opera Frye definisce l’archetipo “un simbolo che connette un poema all’altro e perciò ci aiuta a unificare e a integrare la nostra esperienza letteraria”. Frye è convinto che gli archetipi letterari siano fenomeni puramente letterari e sostiene che essi siano le strutture che danno fondamento e coerenza alla letteratura.
Sempre nell’ambito della critica letteraria di ispirazione junghiana, in anni recenti si è assistito all’emergere anche di una scuola di critica femminista che ha cercato di correggere l’orientamento di genere sessuale presente nell’opera di Jung. Scrittrici quali Annis Pratt e Estella Lauter hanno ampliato in modo stimolante l’orizzonte della critica archetipica, mettendo in evidenza soprattutto le connessioni tra la teorizzazione archetipica junghiana e molte delle più moderne scuole di teoria e di critica letteraria. Da ricordare inoltre il movimento del New Criticism, che, sviluppatosi a partire dagli anni Venti intorno alla figura di John Crowe Ransom, ha proposto il cosiddetto close reading, la lettura ravvicinata del testo letterario, soprattutto poetico, dedicando particolare attenzione alla struttura metaforica e simbolica del testo stesso. L’assunto di base della critica archetipica, secondo il quale l’autore non controlla per intero il significato del suo testo, ha aperto la via anche al cosiddetto Reader-Response Criticism; questo movimento di critica letteraria pone la propria enfasi in particolare sulla reazione del lettore, reazione che è condizionata dalle esperienze culturali, consce o inconsce, nonché dai ruoli sessuali e sociali e che è una fonte di attribuzione di significato al testo. All’inizio del nuovo millennio, la critica archetipica è ancora molto utilizzata, soprattutto negli studi di genere, nonché negli studi intertestuali e comparativi, i quali includono il riconoscimento e l’analisi di tutti quei fenomeni letterari ricorrenti che non possono essere spiegati adeguatamente soltanto nei termini di una particolare tradizione storica; in questo senso, lungi dall’essere esaurita, la critica archetipica appare a tutt’oggi piena di potenzialità e in grado di offrire fecondi contributi alla comprensione dell’immaginazione letteraria e delle sue produzioni.
(Cfr. anche Immaginazione materiale, Mitocritica, Psicoanalisi della cultura)
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