Marta Tibaldi
A proposito di chirurgia estetica
Il testo completo dell'intervista rilasciata a Elisabetta Ambrosi (Il Fatto quotidiano) a proposito del docufilm di Vincenzo Peluso "Specchio delle mie brame" (Prime video)
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“C’era stato un tempo in cui le donne utilizzavano la bellezza soprattutto per avere potere sugli uomini. Oggi sembra che siamo tornati indietro. Le donne si sottopongono a interventi di chirurgia plastica anche impegnativi e rischiosi, come d’altronde ogni operazione chirurgica, per essere sessualmente desiderabili dagli uomini. Varrebbe la pena riflettere su questo aspetto, siamo in una logica che quindi tende a essere orientata e definita dal desiderio maschile.”.
La dottoressa Marta Tibaldi, psicoterapeuta, psicologa analista con funzione didattica e disupervisione presso l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica e l’InternationalAssociation for Analytical Psychology, è la “voce riflessiva” che interviene nel documentario di Vincenzo Peluso, Specchio delle mie brame (su Prime video), un viaggio nel mondo della chirurgia estetica attraverso il lavoro del chirurgo plastico Riccardo Iannuzzi. “Mi hanno chiesto di commentare quello che vedevo, ho cercato di evitare stroncature drastiche, perché la chirurgia plastica è ormai un fatto collettivo di cui prendere atto e su cui riflettere. Ma non posso negare che i pazienti del documentario mi hanno colpito piuttosto negativamente per il modo digiustificare le loro decisioni.
Tibaldi, può spiegarci perché?
Mi è sembrato di vedere costantemente quella che potremmo definire, in modo paradossale, la “coscienza inconscia” delle persone. In parole più semplici, ho visto persone che pensano di sapere delle cose di sé, ma in realtà stanno razionalizzando una grande inconsapevolezza. Infatti, nessuno dei protagonisti ha difetti che sono realmente da operare e sull’intervento vengono messe aspettative di altro genere.
Lei nel documentario sostiene che cercare la perfezione è un errore. In che senso?
La perfezione è un ideale di bellezza statico, immobile. Ma c’è solo un tipo di bellezza statica, quella delle statue (che non sono vive), ovvero delle maschere mortuarie, a cui in effetti alcuni visi riempiti di botulino assomigliano. Un corpo vivente non può essere perfetto, perché finché sei vivo il corpo cambia. Si tratta di un tentativo (illusorio) di bloccare la vita che scorre, un analogo di ciò che accade nelle esperienze traumatiche, che sono situazioni di blocco emotivo a cui però si cerca in tutti i modi di porre rimedio – o, appunto, nel caso della morte. Bisognerebbe semmai puntare alla completezza, che è cosa ben diversa dalla perfezione. Ma poi c’è un altro problema.
Quale?
La perfezione si basa su canoni estetici collettivi – la pubblicità, gli influencer – e questo significa che l’accettazione di noi stessi passa per lo sguardo dell’altro, è quello che conferma la mia identità. Siamo a livelli psicologici arcaici. In questo senso c’è una grande inconsapevolezza di sé e un’incapacità di valutare il dato reale. Si è definiti ancora solo e soltanto dallo sguardo altrui. Altri che come dicevo, nel caso delle donne, spesso sono degli uomini.
Lei mette sotto accusa anche i chirurghi.
Più che accusarli, vorrei metterli in guardia. Quale potrebbe essere alla lunga l’effetto di queste operazioni sullo stesso medico? Quanto gli stessi medici rischiano di ammalarsi a furia di fare interventi per così dire inutili dal punto di vista strettamente chirurgico, diversi da quelli nei quali la chirurgia plastica interviene su persone realmente deturpate? Certo, i medici plastici estetici con il loro lavoro possono diventare molto ricchi, ma alla lunga il troppo denaro non rischia di fare perdere loro la capacità di desiderare, insieme al senso profondo del loro fare e della loro abilità? Ricerche sulla felicità ci dicono, tra l’altro, che oltre una certa soglia di reddito, la percezione di benessere decresce. Poi esistono anche rischi concreti di essere insultati o aggrediti se il paziente non è soddisfatto o se è instabile emotivamente e ha proiettato sulle operazioni aspettative irrealizzabili, come spesso accade.
I chirurghi dovrebbero saper dire anche di no?
Certo, proprio come noi analisti a volte rifiutiamo di prendere un paziente e di analizzarlo, perché magari non ne ha bisogno o per altri motivi, anche i chirurghi dovrebbero potere rifiutare alcune richieste. O quanto meno cercare di problematizzare la richiesta con i pazienti, preparandoli, ad esempio, ai rischi dell’operazione e alla loro possibile insoddisfazione. Secondo me potrebbe essere utile prevedere un colloquio psicologico, per aiutare le persone a vedere ciò che stanno per fare. Più in generale, mi sembra che la domanda da porsi sia: dove stiamo andando e dove vogliamo andare?
In che senso?
Lo specchio in cui ci vediamo, in cui questi pazienti si rispecchiano è uno specchio spesso deformato, nel senso che i pazienti si specchiano nello specchio di ciò che la società vuole. In altre parole, se tutto può essere comprato e venduto, se tutto è merce, anche i corpi perfetti sono merce, in questo senso dobbiamo ringraziare la tv commerciale, le immagini e i valori che veicola e tutto ciò che ne consegue. Se almeno avessimo la consapevolezza che questa bellezza è strettamente legata a una società capitalista che ci mercifica, avremmo fatto un passo avanti. Di nuovo, il problema non è operarsi o meno, ma semmai farlo con una maggiore consapevolezza delle variabili in gioco.
Ma esiste davvero un modo consapevole di operarsi?
Certamente. Nella mia esperienza come psicoanalista ho avuto pazienti che si sono sottoposti a chirurgia plastica. Ma prima che accadesse, abbiamo fatto un lavoro (usando, ad esempio, anche il lavoro sui sogni), sul significato di questa scelta e sulle paure legate ai rischi dell’operazione. Ad esempio una paziente, che voleva a tutti i costi operarsi al seno, ha portato in terapia il suo terrore di morire e di lasciare i figli orfani, con profondi sensi di colpa che rimandavano a vissuti traumatici del passato. Solo dopo avere reso consapevoli questi diversi aspetti, la paziente si è potuta operare in maniera consapevole, assumendo anche i rischi dell’operazione. Nei pazienti del documentario, invece, ho visto, invece, soprattutto negazione.
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