domenica 25 ottobre 2020

 Marta Tibaldi

Il disagio delle parole

Le parole non sono neutre: veicolano emozioni e immagini, che non necessariamente sono positive e portano benessere.
"Coprifuoco" è per me una di queste: ogni volta che la sento avverto un disagio cognitivo ed emotivo; "coprifuoco" evoca in me scenari di guerra - ricordo i miei genitori usare questo termine per raccontare la loro esperienza di quegli anni - anche se in termini lessicali l'uso della parola è corretto. Nel Vocabolario della lingua italiana Treccani si legge infatti che "coprifuoco" indica "l'usanza medievale per cui, a una determinata ora della sera, gli abitanti di una città erano tenuti a coprire il fuoco con la cenere per evitare incendi," ma anche "il divieto straordinario di uscire durante le ore serali e notturne imposto dall'autorità per motivi di ordine pubblico, in situazioni di emergenza." (Vocabolario della lingua italiana Treccani, p. 945). 

James Hillman insegna che le parole non sono flatus vocis, semplici nomi: esse sono anche immagini, scenari emotivi e relazionali di cui è opportuno essere consapevoli e responsabili (cfr. J. Hillman, Psicologia alchemica, Adelphi, Milano 2013). Il trauma globale che stiamo vivendo chiede parole scelte e usate con cura e che, al posto della paura, dell'impotenza e della rabbia, mobilitino nella collettività sentimenti di equanimità, calma e senso di responsabilità. 

La seconda ondata della pandemia porta con sé non soltanto l'emergenza sanitaria ed economica, ma anche quella emotiva: è urgente prendersi cura collettivamente, e non solo grazie alla generosità individuale di chi offre aiuto professionale, anche di questo aspetto. Il trauma acuto, se non trattato adeguatamente, si cronicizza. La collettività rischia una patologia generalizzata, con effetti dirompenti sul tessuto sociale. La salute psicologica dei cittadini entri a pieno titolo e responsabilmente nell'agenda di chi si rivolge alla collettività.


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