sabato 26 aprile 2014

Non volersi separare. A proposito di Stefan Zweig e del film Grand Hotel Budapest

(Foto doew.at)


Non volersi separare.
A proposito di Stefan Zweig e del film Grand Hotel Budapest

Mai come in questi anni si è parlato tanto di trauma e innumerevoli  sono gli approcci che si pongono come obiettivo quello di “superare il trauma” (EMDR, Terapia sensomotoria etc.). Non c’è dubbio che le esperienze traumatiche blocchino il funzionamento psichico ed espongano a disagi e sintomi: ben vengano dunque le terapie che possano dare sollievo a chi del trauma è rimasto vittima. Dal punto di vista psicodinamico sappiamo che nell’esperienza traumatica molti sono gli aspetti  scissi e contraddittori che agiscono in modo autonomo, senza, per così dire, che gli uni sappiano degli altri. Il non volersi separare è uno di questi.

Attualmente nelle sale romane è in programmazione il film di Wes Anderson Grand Hotel Budapest. Si tratta di un film ispirato al romanzo di Stefan Zweig, Il mondo di ieri (Mondadori, Milano 1994), una storia che vorrei definire “post-traumatica”, nel quale l’autore rievoca la vitalità e la bellezza di un mondo ormai scomparso – la Mitteleuropa di fine Ottocento – e la dolorosissima esperienza della sua fine. Il romanzo giustappone un “prima” vitale e creativo a un “dopo” decadente e distruttivo, sfociato nel nazismo e nella seconda guerra mondiale. Zweig non sopravvisse a questo trauma storico e nel 1942 si suicidò in esilio. Il “prima” e il suo dolore insuperabile furono più forti del “dopo” e della possibilità di sopravvivere.

Sebbene il film di Anderson a prima vista possa sembrare - e sia anche - un thriller caleidoscopico, ironico e paradossale, l'inizio e la fine del film in realtà ci raccontano una storia di trauma: una ragazza appende una chiave d’albergo sul piedistallo di un busto dedicato a uno scrittore ormai scomparso, di cui sta leggendo il romanzo. E’ la storia degli antichi splendori del Grand Hotel Budapest, dove ora soggiornano soltanto pochi avventori solitari. Tra questi, il più triste e solo è l’anziano proprietario dell’albergo, che invita lo scrittore a cena e gli racconta le avventure di Gustave H., leggendario concièrge del hotel, e del suo giovane lobby boy Zero, che non è altri che lo stesso proprietario dell’albergo.  Molti anni prima Monsieur Gustave e Zero furono coinvolti innocenti in un omicidio, nel furto di un dipinto d’inestimabile valore e in una eredità controversa. Intorno a questo racconto ruota la parte centrale del film.

Nella scena finale, lo scrittore chiede perplesso all'anziano proprietario perché non abbia venduto l'albergo, visto che ormai è in disuso, e questi gli risponde che lì è stato felice con la donna che ha amato e che è morta prematuramente dopo due anni di matrimonio. Seppure la sua felicità con Agatha sia stata breve, il Grand Hotel Budapest è stato il teatro di quell'amore e l'anziano proprietario non se ne vuole separare.

In Lutto e Malinconia Freud analizza le due esperienze del lutto e della malinconia e a proposito del lavoro del lutto scrive: "L'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. [...] La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. [...] Una volta portato a termine il lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito" (S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere, vol. 8, Boringhieri, Torino 1976, pp. 123-124). Si tratta di un'interpretazione che pone l'accento sulla necessità di superare l’esperienza traumatica e sul fatto che non riuscire in questo intento possa diventare indice di patologia (depressione).

Nel suo approccio alla depressione Jung è meno patologizzante di Freud. L'attenzione alle dinamiche compensatorie della psiche conscia e inconscia dà forma a un atteggiamento clinico molto più fluido e efficace. Jung sostiene, ad esempio, l’importanza di vivere la depressione fino in fondo, anche se ciò prende la forma di un'apparente regressione: reculer pour mieux sauter significa per Jung "indietreggiare per saltare meglio", ovvero potere regredire consapevolmente al fine di recuperare energia psichica e fare un balzo in avanti. Ciò che rende questa regressione trasformativa è la possibilità di dare spazio anche al nostro desiderio di non separarci dall'oggetto amato, assumendo questa esigenza nella coscienza in modo consapevole, come il proprietario del Grand Hotel Budapest.

Quando non si riesce ad andare oltre un legame di attaccamento reciso traumaticamente, per sperare di superare il trauma abbiamo bisogno di guardare in faccia anche il nostro desiderio di non separarci da ciò che abbiamo perduto lasciandogli consapevolmente il tempo di trasformarsi. Le terapie che puntano in modo unilaterale al superamento del trauma rischiano di lasciare in ombra gli aspetti ambivalenti dell'esperienza traumatica, fallendo l'obiettivo che perseguono: il trauma può essere pienamente superato se ne vivono anche gli aspetti contraddittori, muovendosi dinamicamente tra di loro.

Un grande insegnamento nella direzione della consapevolezza dell'eterna dinamica degli opposti viene dalla filosofia orientale. L'immagine del Tao e le trasformazioni descritte ne Il Libro dei Mutamenti (R. Wilhelm, I Ching. Il libro dei mutamenti, Adelphi 1995) ci pongono di fronte "alle singole cose fluenti" con uno sguardo capace di cogliere "l'eterna immutabile legge operante in ogni mutamento": ogni situazione evolve nel suo opposto, se solo si lascia che tutto avvenga. Wu wei è un’importante precetto del Taoismo che riguarda la consapevolezza dell’agire senza sforzo, nel pieno rispetto e armonia dei processi dinamici. Il terapeuta deve sapere tollerare anche la volontà del paziente di non separarsi, confidando nell’ “eterna trasformazione delle cose” (Zuangzi).

Il trauma contiene in sé sia il desiderio del suo superamento sia quello opposto di non volere recidere il legame con gli oggetti d’amore perduti. Riconoscere entrambi, dando loro spazio e tempo per evolvere è un passaggio ineludibile perché l'esperienza traumatica faccia il suo corso, portandoci oltre il trauma (cfr. M. Tibaldi, Oltre il cancro. Trasformare creativamente la malattia che temiamo di più, Moretti & Vitali, Bergamo 2010).

Ogni tentativo di superamento unilaterale del trauma, anche quello che nasce dalle migliori intenzioni, se non è bilanciato dalla presa di coscienza della posizione psichica opposta e dalla sua accettazione, rischia di essere controproducente e di bloccare il processo. Forzare il trauma senza rispettare anche la volontà della persona traumatizzata di non separarsi da ciò che è stato perduto può esasperare il dolore traumatico, rischiando di renderlo davvero insuperabile.
(Foto di Marta Tibaldi)



1 commento:

flavia ha detto...

mi sembra molto interessante la tua riflessione: saper accettare che l'altro non voglia separarsi dal suo oggetto d'amore perduto e, nello stesso tempo, voglia farlo, e senza sentirsi in colpa.e quindi accompagnarlo passo passo, rispettando il suo percorso senza accelerarlo, ciò che lo farebbe incespicare e ... travolgere....
molto bello l'excursus fra punti di vista di studiosi, compreso il tuo!