giovedì 20 marzo 2014

Non-senso e trauma assoluto

(Foto meteoweb.eu)

Marta Tibaldi
Non-senso e trauma assoluto

Un interessante capitolo dell’ultimo libro di Massimo Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Raffaello Cortina, Milano 2014) è dedicato al tema del trauma e dell’abbandono. Recalcati sostiene che il trauma amoroso riattivi traumatismi più attivi, primari, riportando il soggetto alle sue ferite più lontane nel tempo: “Nell’interruzione traumatica della presenza dell’Altro, noi ricadiamo nella contingenza più pura, sprofondiamo nel reale senza senso della nuda vita, regrediamo al di qua dello specchio, nell’esperienza del corpo in frammenti, nell’assenza dell’immagine, nel vortice senza senso della vita. […] Non c’è trauma ogni volta che siamo ricacciati violentemente, senza mediazioni simboliche, nella nostra condizione primaria dell’assoluto abbandono, dell’inermità, dell’assenza della presenza? Non c’è trauma ongi volta che ritorniamo a fare esperienza della nostra vita come un grido perso nella notte?” (M. Recalcati, cit., p. 76).

Leggendo queste parole ho pensato ai traumi dei bambini piccolissimi che, esposti  precocemente all’esperienza del non-senso, acquisiscono in modo violento la conoscenza del mondo, in una fase del loro sviluppo psicofisico che ancora non permette loro di elaborare ciò che è accaduto.
Per quei bambini non sarebbe neanche corretto parlare di “esperienza del non-senso”, se per “esperienza” intendiamo la possibilità di rappresentarsi psichicamente il trauma. Nel caso dei bambini piccolissimi l’“esperienza del trauma” è infatti quella di “essere un tutt’uno con il trauma”,  i bambini sono essi stessi il trauma che stanno vivendo:  si trasformano nel  non-senso che li sta traumatizzando, diventano una cosa sola con ciò che è impensabile ma nello stesso tempo -  e questo è l’aspetto tragico del trauma precoce - ne “fanno esperienza” nella forma del collasso totale di ogni parametro psicofisico: il trauma è l’esperienza irrappresentabile del crollo assoluto.

Usando una terminologia junghiana si potrebbe dire che il loro Sé (la psiche inconscia) è ferito a morte mettendo a rischio la sopravvivenza psicofisica, mentre l’Io (psiche cosciente), fa esperienza di sé nella forma del crollo psicofisico (Io collassato). Potrei definire l’esperienza traumatica grave e precoce come un’esperienza “senza”. Come scrive Recalcati: “Il mondo è caduto fuori dalla scena del mondo”  (M. Recalcati, cit., p. 79). Il mondo diventa improvvisamente Altro  -  non l’Altro soccorrevole, ma l’Altro indifferente - e faticosissimo da vivere; l’Io traumatizzato, dal canto suo, “non ce la fa”.

L’analista junghiano Donald Kalsched si è occupato a fondo del mondo interiore del trauma (D. Kalsched, Il mondo interiore del trauma, Moretti & Vitali, Bergamo 2001). Nel descrivere ciò che accade alle persone traumatizzate, Kalsched focalizza quelli che egli definisce i meccanismi di “dissociazione salvavita”: “L’emozione intollerabile è distribuita sulle diverse parti della psiche/soma, che smettono di sapere l’una dell’altra, in modo che la personalità nella sua totalità non debba soffrire l’orrore indicibile del trauma. […] Questo consente alla vita di andare avanti, anche se a carissimo prezzo – la perdita della vivacità e della vitalità che da sempre si associano a un vivere ‘animato” (D. Kalsched, Il trauma e l'anima, Moretti & Vitali, Bergamo 2013, p. 30).
Kalsched punta l’attenzione sulla relazione che lega il trauma alla dimensione archetipica del “numinoso” nei suoi aspetti negativi e in quelli positivi e integrativi: “Le persone che vivono esperienze positive e integrative di questo genere, non le dimenticano mai; e in seguito a simili esperienze molti di loro raccontano di non avere più paura della morte. Potremmo dedurne che in quei momenti sia possibile vedere attraverso il velo che normalmente separa la realtà ordinaria da quella straordinaria; sono momenti che offrono all’esperienza umana “barlumi” o “accenni” di una dimensione trascendente o ineffabile” (D. Kalsched, cit., p. 52).

La risposta di Recalcati all’esperienza del collasso di se stessi e del mondo si colloca, come egli stesso afferma, nella teorizzazione lacaniana che “non esista possibilità di vita umana senza la presenza dell’Altro” (p. 37) Come il bambino piccolo che nasce gridando, anche l’adulto tradito nasce attraverso un grido, che è la manifestazione dell’abbandono assoluto nel quale la nostra vita è stata gettata: “E’ attraverso il grido che la vita si rivolge all’Altro per trovare un sostegno senza il quale essa si perderebbe” (M. Recalcati, cit., p. 38). Ed è solo la risposta dell’Altro a rendere possibile la traduzione significante del grido in appello.” (ibidem).
Recalcati afferma dunque che  la presenza dell’Altro ci può salvare: “La vita esige la presenza dell’Altro, dell’Altro come soccorritore, affermava già Freud, del prossimo (Nebensmensch) che sa rispondere al grido in cui la vita si palesa, perché senza la risposta dell’Altro la vita muore, si disumanizza, brancola nel buio, resta pura vita animale. Nulla, infatti, come l’esperienza dell’abbandono mostra quanto la vita umana non consista di se stessa, ma sia integralmente sospesa alla risposta dell’Altro” (ivi, p. 39).

Ma che cosa accade quando l’Altro non riconosce quel grido o lo riconosce in modo inadeguato? Quando l’esposizione al non-senso e al trauma assoluto non è rispecchiata come il traumatizzato avrebbe bisogno che fosse? Quando l’altro non coglie il dramma inconscio iscritto nel Sé  e il collasso dell’Io o li coglie senza essere in grado di contenerlo o li coglie offrendo parole improprie (interpretazioni errate)?
Recalcati enfatizza il ruolo che la parola ha nel superare il non-senso alla quale ci consegna il trauma: “Dove c’è risposta, esposizione alla responsabilità della parola, la vita non è più nell'assoluto abbandono, non è più per caso, ma è voluta, desiderata, attesa.” (ivi, p. 41) Kasched, dal canto suo, sostiene che “l’analista deve diventare un partner a pieno titolo nella “regolazione diadica” dell’affetto e nella “cocreazione” di una realtà intersoggettiva completamente nuova” (D. Kalsched, cit., p. 34). Ma il dono attivo della presenza, dell’ascolto, della parola di cui parla Recalcati e la “regolazione diadica” e la “cocreazione” di cui parla Kalsched richiedono all’analista di essersi  spinto personalmente nell’abisso del non-senso, pena l’impossibilità di seguire il paziente traumatizzato lungo la sua esperienza del trauma assoluto.

Da questo punto di vista il lavoro del perdono cui Recalcati invita, implicando il confronto con il non-senso radicale,  avvicina colui che abbia compiuto questo percorso alla possibilità di trovare una “parola che salva” (cfr. E. Drewermann, Parola che salva, parola che guarisce, Queriniana, Brescia 1997), probabilmente anche per il trauma infantile gravissimo.  Il lavoro del perdono e le parole che ne scaturiscono sono l'antidoto curativo:  quando “nulla è come prima” la conquista della parola che guarisce porta noi stessi e gli altri oltre l’orrore di ciò che abbiamo vissuto.
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(Foto siempre889.com)

Marta Tibaldi, Profilo professionale e pubblicazioni

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