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Marta Tibaldi
Non-senso e trauma assoluto
Un interessante capitolo dell’ultimo libro di Massimo Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Raffaello Cortina, Milano 2014) è dedicato al tema
del trauma e dell’abbandono. Recalcati sostiene che il trauma amoroso riattivi
traumatismi più attivi, primari, riportando il soggetto alle sue ferite più
lontane nel tempo: “Nell’interruzione traumatica della presenza dell’Altro, noi
ricadiamo nella contingenza più pura, sprofondiamo nel reale senza senso della
nuda vita, regrediamo al di qua dello specchio, nell’esperienza del corpo in
frammenti, nell’assenza dell’immagine, nel vortice senza senso della vita. […]
Non c’è trauma ogni volta che siamo ricacciati violentemente, senza mediazioni
simboliche, nella nostra condizione primaria dell’assoluto abbandono,
dell’inermità, dell’assenza della presenza? Non c’è trauma ongi volta che
ritorniamo a fare esperienza della nostra vita come un grido perso nella
notte?” (M. Recalcati, cit., p. 76).
Leggendo queste parole ho pensato ai traumi dei bambini piccolissimi
che, esposti precocemente all’esperienza
del non-senso, acquisiscono in modo violento la conoscenza del mondo, in una
fase del loro sviluppo psicofisico che ancora non permette loro di elaborare
ciò che è accaduto.
Per quei bambini non sarebbe neanche corretto parlare di
“esperienza del non-senso”, se per “esperienza” intendiamo la possibilità di
rappresentarsi psichicamente il trauma. Nel caso dei bambini piccolissimi l’“esperienza
del trauma” è infatti quella di “essere un tutt’uno con il trauma”, i bambini sono essi stessi il trauma che
stanno vivendo: si trasformano nel non-senso che li sta traumatizzando, diventano
una cosa sola con ciò che è impensabile ma nello stesso tempo - e questo è l’aspetto tragico del trauma
precoce - ne “fanno esperienza” nella forma del collasso totale di ogni
parametro psicofisico: il trauma è l’esperienza
irrappresentabile del crollo assoluto.
Usando una terminologia junghiana si potrebbe dire che il
loro Sé (la psiche inconscia) è ferito a morte mettendo a rischio la
sopravvivenza psicofisica, mentre l’Io (psiche cosciente), fa esperienza di sé nella
forma del crollo psicofisico (Io collassato). Potrei definire l’esperienza traumatica
grave e precoce come un’esperienza “senza”. Come scrive Recalcati: “Il mondo è caduto fuori dalla
scena del mondo” (M. Recalcati, cit., p.
79). Il mondo diventa improvvisamente Altro
- non l’Altro soccorrevole, ma
l’Altro indifferente - e faticosissimo da vivere; l’Io traumatizzato, dal canto
suo, “non ce la fa”.
L’analista junghiano Donald Kalsched si è occupato a fondo
del mondo interiore del trauma (D. Kalsched, Il mondo interiore del trauma, Moretti & Vitali, Bergamo 2001). Nel descrivere ciò che accade alle persone
traumatizzate, Kalsched focalizza quelli che egli definisce i meccanismi di “dissociazione
salvavita”: “L’emozione intollerabile è distribuita sulle diverse parti della
psiche/soma, che smettono di sapere l’una dell’altra, in modo che la
personalità nella sua totalità non debba soffrire l’orrore indicibile del
trauma. […] Questo consente alla vita di andare avanti, anche se a carissimo
prezzo – la perdita della vivacità e della vitalità che da sempre si associano
a un vivere ‘animato” (D. Kalsched, Il trauma e l'anima, Moretti & Vitali, Bergamo 2013, p. 30).
Kalsched punta l’attenzione sulla relazione che lega il
trauma alla dimensione archetipica del “numinoso” nei suoi aspetti
negativi e in quelli positivi e integrativi: “Le persone che vivono
esperienze positive e integrative di questo genere, non le dimenticano mai; e
in seguito a simili esperienze molti di loro raccontano di non avere più paura
della morte. Potremmo dedurne che in quei momenti sia possibile vedere
attraverso il velo che normalmente separa la realtà ordinaria da quella
straordinaria; sono momenti che offrono all’esperienza umana “barlumi” o
“accenni” di una dimensione trascendente o ineffabile” (D. Kalsched, cit., p. 52).
La risposta di Recalcati all’esperienza del collasso di se
stessi e del mondo si colloca, come egli stesso afferma, nella teorizzazione
lacaniana che “non esista possibilità di vita umana senza la presenza
dell’Altro” (p. 37) Come il bambino piccolo che nasce gridando, anche l’adulto
tradito nasce attraverso un grido, che è la manifestazione dell’abbandono assoluto nel
quale la nostra vita è stata gettata: “E’ attraverso il grido che la vita si
rivolge all’Altro per trovare un sostegno senza il quale essa si perderebbe”
(M. Recalcati, cit., p. 38). Ed è solo la risposta
dell’Altro a rendere possibile la traduzione significante del grido in
appello.” (ibidem).
Recalcati afferma dunque che la presenza dell’Altro ci può salvare: “La
vita esige la presenza dell’Altro, dell’Altro come soccorritore, affermava già
Freud, del prossimo (Nebensmensch)
che sa rispondere al grido in cui la vita si palesa, perché senza la risposta
dell’Altro la vita muore, si disumanizza, brancola nel buio, resta pura vita
animale. Nulla, infatti, come l’esperienza dell’abbandono mostra quanto la vita
umana non consista di se stessa, ma sia integralmente sospesa alla risposta
dell’Altro” (ivi, p. 39).
Ma che cosa accade quando l’Altro non riconosce quel grido o
lo riconosce in modo inadeguato? Quando l’esposizione al non-senso e al trauma
assoluto non è rispecchiata come il traumatizzato avrebbe bisogno che fosse?
Quando l’altro non coglie il dramma inconscio iscritto nel Sé e il collasso dell’Io o li coglie senza essere
in grado di contenerlo o li coglie
offrendo parole improprie (interpretazioni errate)?
Recalcati enfatizza il ruolo che la parola ha nel
superare il non-senso alla quale ci consegna il trauma: “Dove c’è risposta, esposizione alla
responsabilità della parola, la vita non è più nell'assoluto abbandono, non è
più per caso, ma è voluta, desiderata, attesa.” (ivi, p. 41) Kasched, dal canto suo,
sostiene che “l’analista deve diventare un partner a pieno titolo nella
“regolazione diadica” dell’affetto e nella “cocreazione” di una realtà
intersoggettiva completamente nuova” (D. Kalsched, cit., p. 34). Ma il dono attivo della presenza,
dell’ascolto, della parola di cui parla Recalcati e la “regolazione diadica” e la
“cocreazione” di cui parla Kalsched richiedono all’analista di essersi spinto personalmente nell’abisso del non-senso, pena
l’impossibilità di seguire il paziente traumatizzato lungo la sua esperienza del trauma assoluto.
Da questo punto di vista il lavoro del perdono cui Recalcati
invita, implicando il confronto con il non-senso radicale, avvicina colui che abbia compiuto questo percorso alla possibilità di trovare una “parola
che salva” (cfr. E. Drewermann, Parola che salva, parola che guarisce, Queriniana, Brescia 1997), probabilmente anche per il trauma
infantile gravissimo. Il lavoro del
perdono e le parole che ne scaturiscono sono l'antidoto curativo: quando “nulla è come prima” la
conquista della parola che guarisce porta noi stessi e gli altri oltre l’orrore di ciò che abbiamo vissuto.
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