lunedì 31 agosto 2020

Carl Gustav Jung: a proposito di "psicologia analitica" e di "psicologia complessa"


Marta Tibaldi
Carl Gustav Jung:
a proposito di "psicologia analitica" e "psicologia complessa" 

Carl Gustav Jung usò per la prima volta l'espressione "psicologia analitica" nel 1911, per differenziare il proprio pensiero da quello freudiano e per indicare una psicologia che fosse interessata alle dimensioni psichiche consce e inconsce e alle loro reciproche relazioni (C.G. Jung, "Sulla dottrina dei complessi", OC2, pp. 429). Due anni dopo, nel 1913 - anno che segnò, tra l'altro, la rottura del suo rapporto con Freud - Jung utilizzò ancora questa espressione, per affiancarla in seguito, a partire dagli anni '30, a quella di "psicologia complessa", ovvero una psicologia in grado di dare conto della molteplicità dell'anima umana, oltre ai suoi aspetti patologici. A differenza della "psicologia analitica", espressione che da allora Jung usò per indicare in particolare la sua pratica clinica, con "psicologia complessa" Jung si riferì in particolare alla prospettiva teorico-culturale del suo modo di intendere la vita psichica conscia e inconscia (cfr. R. Bernardini, Jung a Eranos. Il progetto della psicologia complessa, Franco Angeli, Milano 2011).
Come è noto, nel 1912 Jung aveva pubblicato Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia, un testo nel quale, attraverso lo studio di materiale clinico indiretto, aveva interpretato le fantasie inconsce di una giovane americana, indicata con lo pseudonimo di Miss Miller. L'intento del libro era quello di "elaborare il più a fondo possibile tutti i fattori storici e spirituali che confluiscono nei prodotti involontari di una fantasia individuale." (p. 10) e di portare l'attenzione sulla "base creativa" psiche umana, che  "è da per tutto la stessa psiche umana e lo stesso cervello umano [e] che, con varianti relativamente minime, funziona da per tutto nello stesso modo" (p. 10). Prendendo le distanze da Freud, in Simboli della trasformazione, Jung va oltre l'idea che la libido, ovvero l'energia psichica, sia espressione soltanto dell'istinto sessuale. All'epoca Jung stava già elaborando la nozione di "inconscio collettivo", quale dimensione impersonale e archetipica della psiche (p. 10), nonché quella di libido come "fantasia creatrice" che genera i "simboli" della trasformazione psichica. I simboli non sono più meri "segni", ma "la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto [ovvero inconscio], ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria" ("Simbolo" in Tipi Psicologici, p. 483-85). L'energia psichica è dunque intesa da Jung come "pulsione vitale universale", che si può legare a qualsiasi sfera di attività ed è caratterizzata  in senso anche finalistico, ovvero come la tendenza della psiche a realizzare pienamente se stessa attraverso trasformazioni simboliche profonde (processo d'individuazione). Grazie agli esperimenti di associazione verbale che aveva condotto negli anni 1904-1911, Jung aveva già descritto la presenza e l'azione dei cosiddetti "complessi a tonalità affettiva" - immagini e idee, raggruppate intorno un nucleo centrale, che condividono le medesime caratteristiche emotive, e sono espressioni dinamiche della struttura psichica - scardinando una concezione monolitica della psiche.


In ambito junghiano, l'espressione "psicologia complessa" si riferisce, dunque, non soltanto alla "psicologia dei complessi", così come formulata sulla base degli esperimenti di associazione verbale condotti da Jung negli anni 1904-1911, ma soprattutto e in particolare, a una psicologia comparata in grado di dare fondamento empirico e storico alla ricerca sulle relazioni tra psiche conscia e inconscia: ricerca che, tra l'altro, Jung aveva condotto su di sé negli anni 1913-1930, dandone ricca testimonianza ne Il Libro Rosso. Liber Novus (Bollati Boringhieri, Torino 2010).Con l'espressione "psicologia complessa" Jung esprime dunque "il [proprio] impegno sul terreno della complessità, quel terreno che esclude e travalica ogni facile soluzione al problema antropologico, ogni pigro riduzionismo, ogni seducente semplificazione, ma indica inarrestabilmente quell'ulteriorità inesauribile in cui l'immagine dell'uomo si presenta all'uomo." (M. Trevi, Metafore del simbolo. Ricerche sulla funzione simbolica nella psicologia complessa, Cortina, Milano 1986, p. 51). 

La psicologia complessa e la psicologia analitica di Jung sono oggi di particolare attualità teorica e clinica perché riescono a rispondere in modo articolato ed elegante ai disagi attuali, indicando percorsi di trasformazione individuale e collettiva.

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lunedì 17 agosto 2020

Marta Tibaldi, Negazione e paura

Marta Tibaldi
Negazione e paura

"[...] I am large, I contain multitudes"
(W. Whitman)

Assistiamo, ormai da alcuni mesi, al fenomeno del cosiddetto "negazionismo" del Covid-19. Sebbene il termine indichi, in senso proprio, il fenomeno storico dei revisionisti che negano l'esistenza dell'Olocausto, esso oggi è utilizzato, in modo un pò approssimativo, per indicare anche coloro che negano l'esistenza della pandemia da Covid-19 e si comportano di conseguenza.

La negazione e, in modo ancora più severo, il diniego, sono meccanismi di difesa ben noti agli psicologi del profondo. Si tratta di modalità psichiche che, non tenendo conto dei dati di fatto, tendono a scotomizzare, ovvero a eliminare inconsciamente dalla percezione cosciente, ansie e angosce troppo disturbanti per la coscienza.


Non c'è dubbio che l'esperienza della pandemia abbia messo ognuno di noi, e il mondo intero, di fronte al rischio concreto di ammalarsi gravemente e di morire, oltretutto in condizioni di isolamento e di solitudine: eventualità traumatiche che hanno sconvolto le aspettative coscienti, fino ad allora date per scontate. Sappiamo d'altronde che la via della negazione è destinata al fallimento: il wishful thinking piega la realtà dei fatti entro un piccolissimo margine e per tempi brevi, a meno che non si scelga la via del delirio. 

Che fare?  Trasformare la negazione in presa di coscienza, creando spazi di riflessione, individuali o collettivi, che accolgano le paure e ne colgano il significato protettivo e prospettico. Iniziamo da noi stessi, interrogandoci su dove e come ci poniamo rispetto alla pandemia, non soltanto in termini consci ma anche inconsci, ascoltando il nostro corpo, che non mente, e leggendo i nostri sogni, che ci offrono un'altra prospettiva. Pratichiamo il dialogo con  le "moltitudini" che ci abitano, imparando a confrontarci con gli altri e con il mondo, lungo la via della collaborazione, piuttosto che della negazione. 
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venerdì 7 agosto 2020

Marta Tibaldi . Malattie, epidemie e dèi


Marta Tibaldi

 

Malattie, epidemie e dèi

   

    In Oltre il cancro. Trasformare la malattia che temiamo di più (Moretti & Vitali, Bergamo 2010)  qualche anno fa proponevo una lettura della malattia oncologica in prospettiva mitica. Rifacendomi al mito di Filemone e Bauci - i due anziani coniugi che, unici tra tutti, accolsero nella loro casa gli dèi Zeus ed Ermes, che erano travestiti da viandanti - paragonavo il cancro a un ospite inatteso, a uno "straniero", che possiamo accogliere o rifiutare. Il mito racconta che gli dèi, svelata la loro identità, esaudirono il desiderio di Filemone e Bauci di potere morire insieme: la loro casa fu trasformata in tempio, mentre le acque sommersero tutte le altre abitazioni.

 Laurent de Sutter in Cambiare il mondo. L'epidemia degli dèi (Tlon, Roma 2020) offre una lettura storico-mitologica delle epidemie, in modo analogo alla mia proposta di leggere il cancro su un registro mitico. Ricordando che nell'antica Grecia "le epidemie, per definizione, riguardavano gli dèi che non appartenevano a un luogo", de Sutter scrive: "Quando una divinità decideva di visitare la città, ovvero entrava per un momento a far parte di un luogo (epì-demos, "ciò che è sul posto") era cosa opportuna ringraziare in maniera appropriata - perché non capitava tutti i giorni di ricevere una visita del genere." (pos. 11 di 225). I Greci erano consapevoli dell'importanza delle "visite degli dèi", qualunque ne fosse la forma, perché offrivano ai mortali l'opportunità di ritualizzare la coesistenza reciproca, garantendo l'ordine del mondo.

       La lettura simbolica delle malattie, delle epidemie e, per estensione, della pandemia da Covid-19, stimola a riflettere sul rapporto che ognuno di noi ha con ciò che è (psicologicamente e fisicamente) estraneo, ignoto e inatteso, e sul fatto che in esso si possa nascondere "un dio", che chiede di essere accolto. Se sostituiamo all'immagine degli dèi quella della psiche inconscia, soprattutto nei suoi aspetti archetipici, comprendiamo facilmente ciò che Freud intendesse con le parole "L'Io non è più padrone in casa propria", ovvero James Hillman con l'espressione "Gli dèi sono diventati malattie."

 

    Oggi si gioca una partita di consapevolezza (troppo spesso, di inconsapevolezza) nei confronti delle relazioni che legano il nostro Io alla psiche inconscia, agli altri esseri viventi (umani e non), al mondo e alla vita stessa. Al pari di Filemone e Bauci, dobbiamo scegliere se accogliere o meno "gli dèi", avendo il vantaggio di conoscere già il finale della storia. Nota ancora De Sutter: [...] le epidemie erano dei protocolli di coesistenza con le potenze inumane - un modo di riconoscerne l'esistenza, accettarne l'importanza all'interno dello spazio umano, e circoscriverne i pericoli, per quanto fatali." (pos. 48 di 225). Per cambiare il mondo abbiamo bisogno di pensare "alla costruzione di nuove condizioni di vita in tutto il pianeta [...] una rivoluzione costruttiva, nel senso più proprio del termine." (pos. 162 e 169 di 225).


 

Come già con la malattia oncologica, dobbiamo impegnarci a realizzare uno spazio di coesistenza costruttiva con il mondo e con i suoi abitanti (umani e non), valorizzando gli aspetti cooperativi e paritetici dei reciproci rapporti.

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