domenica 24 gennaio 2021


Marta Tibaldi

Active imagination, extraversion, cross-culture:

Guan Yin and Chinese divination

Just published 
in Psychoanalysis and Psychotherapy in China 3(2) 278–288 (2020) my paper on Active imagination, extraversion, cross-culture: Guan Yin and Chinese divination.  A reflection on the dialogue that Chinese people have with the Goddess Guan Yin as an extroverted form of active imagination (with a discussion by Warren W. Sibilla, Jr.)

ABSTRACT

In the Far East, Guan Yin, the Goddess of Mercy, is the one who “listens to the cries of the world”. Depicted by gigantic white statues, she is the feminine personification of the Bodhisattva Avalokiteshvara and represents an archetypal figure dear to Chinese women and men. In Hong Kong and in Taipei, Taiwan, she is consulted by throwing two moon blocks or ritual sticks according to the rules of Chinese divination. The goddess is a real presence who acts in a real way: when questioned, she answers, defying a synchronistic and extraverted field of knowledge and meaning. The author highlights the importance of approaching in a cross-cultural,

sensitive way, such a slippery cultural phenomenon as the use of divination in that part of China, investigating a possible parallelism between this form of dialogue with

the goddess Guan Yin and the Jungian method of active imagination. Developing a cross-cultural sensibility towards Chinese divinatory practices as Chinese clients

do in their country, without either prejudicially declaring them superstition or considering them as a form of magic, can have transformative effects both on Eastern

and Western imagery. In the case of Chinese people, this sensibility develops the ability to examine, psychologically, a phenomenon whose deeper meaning often remains unconscious. In the case of Westerners, this sensibility creates an experience of active imagination in extraverted form. In both cases, when approached from a Jungian perspective, the Chinese divinatory practice leads to experiencing the transformative reality of the extraverted and synchronistic imaginal action.


Keywords: active imagination, extraversion, cross-culture, Guan Yin, divination, China.


DISCUSSION

A discussion of Marta Tibaldi’s “Active imagination, extraversion, cross-culture: Guan Yin and Chinese divination”

Warren W. Sibilla, Jr.


The Bodhisattva is understood as one who has reached full enlightenment but

remains in this world to specifically address the suffering of each individual.

Thus, the Bodhisattva serves as a bridge between the Buddha and

the heavenly realms and the earth and sentient beings. Avalokiteshvara

Bodhisattva is a bodhisattva most prominently celebrated in the Lotus Sutra

and is known to be both male and female. Guan Yin is the Japanese and

Chinese form of Avalokiteshvara, and as displayed at the Tsz Shan Monastery,

she most prominently exemplifies compassion as can be seen in the Buddha

in her Top Knot, the Mani Pearl of Enlightenment in her right hand, and the

vase by which cleanses the world in her left hand. Her Keyura Necklace showcases

her transcendence of all-worldly entanglements. Finally, her slight lean

forward and soft, warm gaze underscore her all-encompassing compassion.

C. G. Jung had an interest in the religions and philosophies of the East

for his entire professional career. For instance, from his study of the Secret of

the Golden Flower and the Yi Jing, to his study of the text, Chan and Zen

Teaching which was on his nightstand at the time of his death, Jung enjoyed

a lifelong connection. In particular, Jung was interested in the East’s understanding

of the wisdom teachings that drew attention to the non-causal

and non-linear aspects of time manifested in the psyche. Jung used these

teachings to help develop key aspects of analytic psychology to include

synchronicity, the self, the use of divination, the transcendent function, and

active imagination.

It is important to note that Avalokiteshvara Bodhisattva is often portrayed

as having a thousand arms—each arm also having an eye. In this manner,

Avalokiteshvara is understood to be omnipresent and omniscient evidencing

an all-knowing being, and thus modelling a full and complete mastery of what

the West has come to call the unconscious. The author has sought to elucidate

Jung’s lifelong study and integration of the wisdom teachings of the

East (e.g. divination) with respect to Avalokiteshvara, in order to include this

all-knowing nature that is thought to be accessed when using divinatory

practices. This article is an important contribution to the ongoing dialogue

that seeks to study the relationship between Western psychology and the

wisdom of teachings of the East.

Psychoanalysis and Psychotherapy in China 3(2) 289 (2020)

Contact: Warren W. Sibilla, email: drsibilla@psychhc.com

venerdì 22 gennaio 2021

Marta Tibaldi, Critica archetipica

Marta Tibaldi

Critica archetipica

L'esistenza umana è fatta di eventi ricorrenti che sono analoghi a quelli presenti nei miti e nei riti delle culture umane, così come nei sogni e nelle immagini psichiche.In ambito letterario la critica archetipica recepisce, tra l'altro, la lezione junghiana e sostiene che i testi letterari derivino la loro pregnanza da questi elementi ricorrenti.In questo post ripropongo la voce "CRITICA ARCHETIPICA" che ho scritto per il Dizionario degli Studi Culturali (studiculturali.it) curato da Michele Cometa


CRITICA ARCHETIPICA
In ambito letterario il termine archetipo (composto dal tema greco archo “essere a capo” e da typos “forma, tipo”) indica una figura, un’azione, un’immagine ricorrente o un qualsiasi altro elemento che si ritrovi nei testi letterari in tempi e luoghi diversi. La critica archetipica ritiene che, oltre agli elementi biografici, storici e sociali presenti nei singoli testi letterari e nella letteratura nel suo insieme, sia possibile rintracciare anche degli elementi ricorrenti, dei modelli archetipici appunto, che sono fondamentalmente analoghi a quelli presenti nei miti e nei riti delle culture umane, nei sogni e nelle immagini psichiche, elementi dai quali, tra l’altro, i testi letterari e la letteratura deriverebbero la loro vera pregnanza. Per questo motivo, la critica archetipica ritiene che la conoscenza etno-antropologica dei miti e dei riti e quella psicologica dei simboli e delle immagini sia fondamentale per individuare e comprendere i motivi archetipici che ricorrono in letteratura e più in generale in ogni produzione intellettuale. Insieme alla critica sociale, alla critica formale e a quella psicologica, la critica archetipica si può considerare uno dei quattro più importanti orientamenti con i quali studiare e valutare un’opera letteraria. Ispirandosi agli studi dell’antropologo inglese James Frazer (1854-1941) e alle teorizzazioni dello psichiatra e psicologo svizzero Carl Gustav Jung (1875-1961), la critica archetipica dedica particolare attenzione a tutti quei motivi che in modo costante e ricorrente danno forma ad aspetti fondamentali dell’esistenza umana; motivi che non si lasciano spiegare riduttivamente, né dal punto di vista biografico, né da quello storico e sociale, ma che rimandano a qualcosa che sta prima di tutto questo: alle immagini primordiali, ai modelli originari delle forme, ai modelli di comportamento, ai concetti chiave del vivere umano che sono a fondamento delle forme visibili, a quelle costanti archetipiche che, anche nel testo letterario, esprimono le connessioni profonde con le determinanti universali dell’esistenza umana.

Sebbene della critica archetipica si possano trovare esempi storici nelle opere di autori quali Vico, Goethe e Schelling, in letteratura essa indica il fenomeno letterario del XX secolo, noto anche con il termine di mitocritica, che si è affermato soprattutto tra gli anni Trenta e Cinquanta grazie ad autori che trassero ispirazione soprattutto dall’opera di Frazer e di Jung. L’antropologo inglese James Frazer, autore di The Golden Bough (1925), monumentale lavoro in dodici volumi, fu il primo a documentare in modo sistematico i fatti della vita primitiva, il complesso materiale mitologico delle cosiddette culture primitive, dandone una visione organica e comprensiva. Utilizzando un metodo fondamentalmente comparativo, dopo avere esaminato un vastissimo numero di miti provenienti da luoghi e da tempi diversi, Frazer rintraccia gli archetipi che caratterizzano i miti e i riti nelle diverse culture, mettendo in evidenza le somiglianze di base e suggerendo che il mito e il rito, sebbene nel tempo e nello spazio si manifestino in modo diverso, si strutturano comunque intorno a modelli ricorrenti. Dal canto suo, Carl Gustav Jung, il fondatore della psicologia analitica, nei venti volumi delle opere pubblicate e in numerosi scritti inediti teorizzò, tra l’altro, che la psiche inconscia è composta di un inconscio personale, prodotto della rimozione di elementi psichici incompatibili con la coscienza, e di un inconscio collettivo, “quella sfera della mitologia inconscia, le cui immagini primordiali sono patrimonio comune dell’umanità”. Quest’ultimo precede ogni esperienza individuale ed è sede degli archetipi, di quei patterns of behavior con cui l’essere umano entra in contatto attraverso le immagini, che ne sono la manifestazione visibile. In Über die Beziehung der analytischen Psychologie zum dichterischen Kunstwerk (1922) facendo un’esplicita differenza tra l’opera letteraria che attinge all’inconscio individuale e quella che scaturisce dall’inconscio collettivo, Jung dà dell’archetipo, ovvero della immagine primordiale (che per Jung prende anzitutto la forma di figura mitologica), la definizione di “figura, demone, uomo, o processo che si ripete nel corso della storia, ogniqualvolta la fantasia creativa si esercita liberamente”. Nel corso degli anni la teoria junghiana degli archetipi è stata oggetto di ampliamenti e revisioni, sia in direzione di un maggiore radicamento del concetto di archetipo nella sfera biologica, sia nella direzione opposta di un suo maggiore radicamento nella sfera mitologico-immaginale. Nel primo caso rientra il contributo di Anthony Stevens che, in Archetypes. A Natural History of the Self (1982) offre una tesi empirica all’esistenza degli archetipi, individuandone la base biologica e assimilandoli al concetto di struttura etologica ereditaria propria della moderna biologia; nel secondo, quello di James Hillman che, radicalizzando il significato mitologico dell’archetipo, propone un modello della psiche il cui soggetto principale sia l’Anima, la base poetica della mente che interconnette gli eventi in modo immaginale. Nella sua opera Hillman evidenzia le affinità che il concetto di mundus imaginalis, studiato dall’islamista Henri Corbin, ha con quello di archetipo junghiano, affermando che gli archetipi e le immagini archetipiche sono le trame invisibili della psiche umana e le direzioni immaginali lungo le quali rintracciare il senso metaforico degli eventi psichici e culturali.

In ambito letterario i primi esempi di critica archetipica stimolati dal lavoro di Frazer sono stati quelli di Jane Hellen Harrison, Gilbert Murray, Francis M. Cornford, noti come i Cambridge Ritualists ovvero la Cambridge Anthropological School. Questi autori provarono a guardare ai testi classici in modo nuovo sostenendo, ad esempio, che alla base del dramma e della poesia vi sia la narrazione mitica della vittoria della forza vitale sulla morte, così come essa si manifesta nel ciclo delle stagioni. L’accettazione dell’ipotesi junghiana dell’esistenza di uno strato collettivo della psiche inconscia invece ha stimolato soprattutto la ricerca e la descrizione di queste immagini primordiali sovrapersonali presenti in letteratura. Tra gli autori che si sono orientati in questo modo, sono da ricordare Maud Bodkin, Robert Graves, Joseph Campbell, George Wilson Knight, Richard Chase, Francis Fergusson, Philip Wheelwright e Northrop Frye. Essi interpretarono una vasta gamma di testi letterari alla luce delle somiglianze che questi ultimi presentavano con i personaggi, le narrazioni o le situazioni mitologiche, attribuendo al concetto di archetipo definizioni diverse e nel contempo cercarono di spingersi oltre lo studio della presenza e della funzione degli archetipi nel testo letterario per interrogarsi sulla più complessa questione della natura e dell’origine delle forme archetipiche stesse.

In Archetypal Patterns in Poetry. Psychological Studies of Imagination (1934) Maud Bodkin, che in area anglosassone è considerata, insieme a Northrop Frye, la maggiore rappresentante della critica archetipica di derivazione junghiana, spiega la teoria degli archetipi e dell’inconscio collettivo di Jung utilizzando esempi letterari e si propone di verificare l’ipotesi che, in particolare nella poesia tragica, si possano identificare temi dalla forma caratteristica, che persistono di epoca in epoca e che corrispondono a schemi emotivi della mente. Campbell (1904-1987) in The Power of Myth (19 89) sostiene che il vero significato del mito non è quello letterario o storico ma quello metafisico e psicologico e in The Hero with a Thousand Faces (1949) individua nel tema mitico del viaggio dell’eroe il mono-mito che sta alla base di ogni altra narrazione mitica. Il canadese Northrop Frye (1912- 1991) dal canto suo, in Anatomy of Criticism. Four Essays (1957), scrive il primo manifesto programmatico della ricerca mitico-archetipica e fa il maggiore sforzo di sistematizzazione delle intuizioni della critica archetipica, collocandole in un più vasto sistema di ipotesi sulla letteratura e sulla critica letteraria. Nella sua opera Frye definisce l’archetipo “un simbolo che connette un poema all’altro e perciò ci aiuta a unificare e a integrare la nostra esperienza letteraria”. Frye è convinto che gli archetipi letterari siano fenomeni puramente letterari e sostiene che essi siano le strutture che danno fondamento e coerenza alla letteratura.

Sempre nell’ambito della critica letteraria di ispirazione junghiana, in anni recenti si è assistito all’emergere anche di una scuola di critica femminista che ha cercato di correggere l’orientamento di genere sessuale presente nell’opera di Jung. Scrittrici quali Annis Pratt e Estella Lauter hanno ampliato in modo stimolante l’orizzonte della critica archetipica, mettendo in evidenza soprattutto le connessioni tra la teorizzazione archetipica junghiana e molte delle più moderne scuole di teoria e di critica letteraria. Da ricordare inoltre il movimento del New Criticism, che, sviluppatosi a partire dagli anni Venti intorno alla figura di John Crowe Ransom, ha proposto il cosiddetto close reading, la lettura ravvicinata del testo letterario, soprattutto poetico, dedicando particolare attenzione alla struttura metaforica e simbolica del testo stesso. L’assunto di base della critica archetipica, secondo il quale l’autore non controlla per intero il significato del suo testo, ha aperto la via anche al cosiddetto Reader-Response Criticism; questo movimento di critica letteraria pone la propria enfasi in particolare sulla reazione del lettore, reazione che è condizionata dalle esperienze culturali, consce o inconsce, nonché dai ruoli sessuali e sociali e che è una fonte di attribuzione di significato al testo. All’inizio del nuovo millennio, la critica archetipica è ancora molto utilizzata, soprattutto negli studi di genere, nonché negli studi intertestuali e comparativi, i quali includono il riconoscimento e l’analisi di tutti quei fenomeni letterari ricorrenti che non possono essere spiegati adeguatamente soltanto nei termini di una particolare tradizione storica; in questo senso, lungi dall’essere esaurita, la critica archetipica appare a tutt’oggi piena di potenzialità e in grado di offrire fecondi contributi alla comprensione dell’immaginazione letteraria e delle sue produzioni.

(Cfr. anche Immaginazione materiale, Mitocritica, Psicoanalisi della cultura)

Anima, Archetipo, Close Reading, Immagine, Immagine archetipica, Immaginale, Immagini primordiali, Individuazione, Inconscio Collettivo, Monomito/Polimito, Mundus Imaginalis, Reader-Response Criticism, Simbolo, Urmythologie, Urmythos.

http://homepages.gold.ac.uk/slater http://elvers.stjoe.udayton.edu/history/people/Jung.htm

http://www.jcf.org

http://vicu.utoronto.ca/fryecentre

http://www.eranos.org http://www.geocities.com/SoHo/Museum/8709/index.htm

Bodkin, M., 1934, Archetypal Patterns in Poetry. Psychological Studies of Imagination, London, Oxford UP.

Campbell, J., 1949, The Hero with a Thousand Faces, New York, Pantheon Books; trad. it. 1958, L’eroe dai mille volti, Milano, Feltrinelli.

Campbell, J., Flowers, B. S., 1989, The Power of Myth, New York, Doubleday; trad. it. 1990, Il potere del mito, Parma, Pratiche.

Chase, R., 1949, The Quest for Myth, Baton Rouge, Louisiana State UP. 

Ferguson, F., 1949, The Idea of a Theater, a Study of Ten Plays. The Artof Drama in Changing Perspective, Princeton, Princeton UP.

 Frazer, J. G., 1925, The Golden Bough, London, Macmillan; trad. it. 1973, Il ramo d’oro, Torino, Bollati Boringhieri.

Frye, N., 1947, Fearful Symmetry: A Study of William Blake, Princeton,

Princeton UP; trad. it. 1969, Agghiacciante simmetria. Uno studio su William Blake, Milano, Longanesi.

Frye, N., 1957, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton, Princeton UP; trad. it. 1969, Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi.

Graves, R., 1948, The White Goddess. A Historical Grammar of Poetic Myth, London, Faber & Faber; trad. it. 1962, La dea bianca, Milano, Longanesi.

Graves, R., 1954, Greek Myths, London, Penguin; trad. it. 1963, I miti greci, Milano, Longanesi.

Hillman, J., 1975, Re-visioning Psychology, New York, Harper & Row; trad. it. 1983, Re-visione della psicologia, Milano, Adelphi.

Hillman, J., 1983, Archetypal Psychology. A Brief Account, Dallas, Spring.

Hillman, J., 1985, Anima: An Anatomy of a Personified Notion, Dallas, Spring; trad. it. 1989, Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano, Adelphi.

Jung, C. G., 1960- Gesammelte Werke, 20 voll., Olten u. Freiburg, Walter; trad. it. 1965-, Opere, 19 voll., Torino, Bollati Boringhieri.

Knight, G. W., 1931, The Imperial Theme. Further Interpretations of Shakespeare’s Tragedies, including the Roman Plays, London, Oxford UP.

Knight, G. W., 1959, The Starlit Dome. Study in the Poetry of Vision, London, Methuen.

Knight, G. W., 1959, The Wheel of Fire. Interpretations of Shakespearian Tragedy, London, Methuen.

Lauter, E., 1984, Women as Mythmakers. Poetry and Visual Art by Twentieth Century Women, Bloomington, Indiana UP.

Pratt, A. V., 1981, Archetypal Patterns in Women’s Fiction, Bloomington, Indiana UP.

Stevens, A., 1982, Archetypes. A Natural History of the Self, New York, Morrow.

Wheelwright, P., 1968, The Burning Fountain. A Study in the Language of Symbolism, Bloomington, Indiana UP.

martedì 19 gennaio 2021

Marta Tibaldi, La spada di Schwarzenegger. Retorica o simbolo?

Marta Tibaldi
La spada di Schwarzenegger. 
Retorica o simbolo?
    Un esempio della concezione junghiana del “simbolo”, inteso come espressione di “qualcosa che non si può caratterizzare in modo migliore” ce lo ha offerto l’attore e già governatore della California Arnold Schwarzenegger, dopo l’assalto del 6 gennaio 2021 al Capititol Hill di Washington da parte dei sostenitori del presidente uscente Donald Trump. Questo avvenimento ha segnato un gravissimo vulnus all’immagine della democrazia americana e ha spinto Schwarzenegger a registrare un video nel quale con un appassionato discorso difende l’istituto democratico e la necessità di renderlo sempre più forte. Il video si conclude con Schwarzenegger che mostra la spada di Conan il barbaro, il film che lo ha reso famoso a livello internazionale, e dice: “Più forgi la spada [della democrazia], più diventa forte.”
    Alcuni commentatori hanno voluto vedere nel gesto di Schwarzenegger un coup de théatre hollywoodiano: “Alla fine Schwarzenegger ha concesso un po’ di retorica hollywoodiana e estratto una pesante spada, quella impiegata sul set del film “Conan”, utilizzandola come parallelo con la democrazia americana, da “forgiare” come una spada d’acciaio invincibile. “Più la tempri, più diventa forte.” (La Repubblica). Se a un livello superficiale si può anche condividere questa lettura, non si può però ignorare la lezione di Jung, quando invita a guardare i simboli come forme portatrici di contenuti inconsci, che affondano le radici nella psiche collettiva e nella storia dell’umanità.
    La scelta della spada di Conan il barbaro da parte di Schwarzenegger, anche nel caso che sia stata una retorica hollywodiana, rimane un simbolo potente di per sé, che veicola in modo autonomo significati archetipici e alchemici: esso rimanda, tra l’altro, alle mitologie dell’età del ferro, quando si riteneva che il metallo provenisse da un “altrove” divino e per questo era onorato come una divinità. (cfr. M. Eliade, Arti del metallo e alchimia, Boringhieri, Torino 2018, p. 23). Ma il ferro da forgiare riporta alla mente anche l’opus alchemico nel quale il metallo vile doveva essere trasformato in oro. Per Jung “La spada significa forza solare, per questo nell’Apocalisse dalla bocca di Cristo esce una spada, cioè il fuoco procreatore, il Verbo o Logos governatore” (C.G. Jung, Simboli della trasformazione, OC 5, Boringhieri 1970, p. 350). Essa è anche la voce di Dio: “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio (C.G. Jung, Psicologia e religione, OC 11, Boringhieri 1979, p. 208).
    L’immagine della spada di Schwarzenegger non può quindi essere valutata soltanto ‘semioticamente’, come mero segno che rimanda al film Conan il barbaro, ma come simbolo vivo, come “idea intuitiva che non può essere formulata altrimenti o meglio”. Scrive Jung: “A mio modo di vedere il concetto di simbolo va rigorosamente distinto dal concetto di segno. […] Il simbolo presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione o formulazione possibile di un dato di fatto relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria. […] Fintanto che un simbolo è vivo, è espressione di una cosa che non si può caratterizzare in modo migliore.” (C.G. Jung, “Simbolo” in Dizionario di psicologia analitica, Biblioteca Boringhieri, Torino 1977, pp. 109-110).
    Possiamo quindi considerare la spada di Schwarzenegger un simbolo vivo che anche oggi veicola rimandi inconsci archetipici e collettivi, stimola i nostri pensieri e i nostri sentimenti profondi e parla a chi abbia orecchie per intendere.

Copyright 2021

venerdì 8 gennaio 2021

Marta Tibaldi recensisce A. Pamparana, La versione di Carl. Biografia romanzata, Tab edizioni, Roma 2020

Marta Tibaldi

recensisce

A. Pamparana, La versione di Carl. Biografia romanzata, Tab edizioni, Roma 2021

 


https://www.tabedizioni.it/shop/product/la-versione-di-carl-414?order=ordering+desc&search=carl

 

Mi sono accostata al libro La versione di Carl. Biografia romanzata con un po’ di perplessità e con un leggero pregiudizio: una biografia romanzata? La prima associazione che mi è venuta in mente sono state le cosiddette “interviste impossibili” o “immaginarie” che, mi si permetta la franchezza, trovo alquanto imbarazzanti. Interviste che sono una sorta di immaginazione attiva[1] inconsapevole, almeno per come noi psicologi analisti intendiamo questa modalità di confronto con le immagini inconsce, un dialogo che è inventato, quindi fondamentalmente interno a chi scrive, e che per questo rischia di raccontare più la psiche dell’autore che il personaggio di cui si vorrebbe narrare la storia. Temevo che il libro di Pamparana potesse andare in questa direzione, una sorta di immaginazione attiva con “Jung”, quindi con un’immagine potente e rischiosa. Tra l’altro proprio Jung mette in guardia dal non utilizzare una figura reale in un’immaginazione attiva perché si costellerebbe una sorta di “psicomagia”[2] nei confronti dell’oggetto dell’immaginazione, con tutti i rischi, spesso misconosciuti, del caso[3].

 

Con questo atteggiamento cosciente mi accingo a leggere il libro La versione di CarlBiografia romanzata. Non conosco Andrea Pamparana, probabilmente l’ho visto qualche volta in televisione, ma in realtà non so nulla di lui. L’intuizione inconscia mi dice di andare avanti. La curiosità prevale su ogni dubbio cosciente.

 

Ho il libro tra le mani e comincio a leggere La versione di Carl. Biografia romanzata La scrittura è fluida, accurata e ha un ottimo ritmo. Anche in questo caso mi chiedo: perché non dovrebbe essere così? Pamparana è un giornalista, scrivere è il suo mestiere. Probabilmente il pregiudizio dell’Io ancora si fa ancora sentire. Vado avanti e sono colpita positivamente anche dal contenuto: la storia di Jung è puntuale e accurata, si tratta di una vera e propria biografia, dove “romanzata” significa soltanto che è raccontata in forma di romanzo e in prima persona. Le parole che pronuncia Jung sono davvero le sue, scritte, con una scelta tipografica intelligente, in corpo minore rispetto al resto del testo e tratte in prevalenza da Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung.[4] Dunque La versione di Carl. Biografia romanzata è una vera biografia junghiana, scritta bene e con un apparato bibliografico di tutto rispetto. Alle spalle della scrittura si percepisce un ampio lavoro di studio e di ricerca. Pamparana conosce bene Jung. 

 

A questo punto – ma la domanda si era già affacciata in me sin dal primo scambio di messaggi con l’autore - mi interrogo sul significato profondo di questa operazione. Quale può essere la motivazione che spinge a scrivere oggi la biografia di un pensatore come Jung? Pamparana lo spiega in termini generali e personali: in primo luogo, perché “Jung [è] lo psichiatra di cui non si può fare a meno”, avendo influenzato profondamente il secolo XX con concetti quali quelli di archetipo e di inconscio collettivo e con il suo nuovo modo di interpretare i sogni[5] ; nel secondo, perché Jung rappresenta ciò che ricollega Pamparana a sue antiche passioni universitarie, quando era studente di Medicina a Milano, nonché alla possibilità di ‘fare anima’ (nel senso hillmaniano del termine)[6]. Dunque la figura di Jung “per ritrovare dopo cinquant’anni le motivazioni profonde delle scelte più importanti della mia vita, tra cui quello di abbandonare la medicina e la neuropsichiatria per dedicarmi al giornalismo”[7]

 

Ancora non mi basta. Scopro, tra l’altro, che La versione di Carl. Biografia romanzata è stata scritta nel tempo della pandemia: “Un capitolo al giorno”, dice Pamparana. La psicologia analitica e la pandemia: un binomio su cui alcuni psicologi analisti si stanno molto interrogando, soprattutto dal punto di vista finalistico e nella cornice della metafora alchemica e delle sue “trasmutazioni”.[8] A questo proposito noto che in La versione di Carl. Biografia romanzata il tema dell’alchimia è trattato un po’ velocemente e, mi sembra, in modo più marginale rispetto ad altri argomenti. Eppure la metafora alchemica può rappresentare oggi il contenitore collettivo per rendere pensabile un processo di trasformazione che con la pandemia chiama in causa l’Anima mundi (la vitalità della natura) e le sue richieste nei nostri confronti. Rilevo anche una certa approssimazione nell’uso dei termini tedeschi. Qua e là appare qualche refuso. Peccato. Se ci saranno altre edizioni – che auguro di cuore a Pamparana e al giovane editore Scagnetti – sarà giocoforza emendare gli errori e, forse, ampliare la parte dedicata alla metafora alchemica in relazione al processo d’individuazione, anche nel tempo attuale. 

 

 

Ma torniamo a quella che, in fin dei conti, mi sembra la chiave di volta, l’ubi consistam di Pamparana e del libro La versione di CarlBiografia romanzata. La consapevolezza espressa da Jung che al nostro interno agiscono due personalità: la n. 1 e la n. 2, “l’uomo storico” e “l’uomo eterno”: “[…] in me coesistevano due persone. Una era lo scolaro che non riusciva in algebra ed era ben lontano dal sentirsi sicuro di se stesso; l’altra era importante, aveva autorità, era un uomo da prendere sul serio […]”.[9] La vita di ognuno di noi si muove tra queste due polarità che si intrecciano, si allontanano, riemergono e chiedono conto a livello dell’Io e a quello del Sé: “Il gioco delle parti fra la personalità numero 1 e la numero 2, che si è protratto per tutta la mia vita, non ha nulla a che vedere con una ‘frattura’ o una dissociazione, nell’abituale accezione medica. Al contrario, si verifica in ogni individuo. Nella mia vita il numero 2 ha avuto una parte di primo piano, e ho sempre cercato di fare posto a tutto ciò che mi fosse imposto dall’intimo. Esso è una figura tipica, che però solo pochissimi percepiscono: in molti l’intelletto cosciente non ha la capacità di intendere che è anche ciò che essi sono.”[10]. Quando la ‘corsa’ della parte storica si esaurisce, tace o si apre per un vissuto traumatico individuale o collettivo, come sta avvenendo, ad esempio, nel tempo della pandemia, la n. 2 diventa più visibile. Jung ne ebbe consapevolezza da subito e creò con essa un rapporto vivo per tutta la vita, fino all’ultimo giorno quando “la corsa era terminata, ora iniziava il [suo] viaggio nell’eternità”.[11] In realtà, proprio grazie a Jung, al metodo dell’immaginazione attiva e alla metafora alchemica, oggi noi possiamo fare questo viaggio nell’eternità, ovvero confrontarci con il Sé, più e più volte nella vita senza avere bisogno di ‘morire’ in senso letterale[12].  

 

La versione di Carl. Biografia romanzata è dunque un libro da leggere, da regalare, da studiare; un libro che, tra l’altro, non mancherò di segnalare agli allievi in formazione dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA). Non posso quindi che ringraziare Andrea Pamparana – uno scrittore naturaliter junghiano? – per il suo bel testo, un romanzo piacevolissimo e profondo, che attraverso la biografia di Jung ci interroga sul significato vivo e vitale del processo d’individuazione: un percorso sapienziale di realizzazione di sé e del Sé a cui oggi ognuno è chiamato a rispondere, assumendo piena responsabilità nei confronti dell’esistenza e del mondo.


[1] L’immaginazione attiva è un metodo di confronto tra l’Io e le immagini inconsce ideato e formalizzato da C.G. Jung a seguito della sua “malattia creativa”.

[2] Il termine “psicomagia” non è di Jung ma di Alejandro Jodorowsky (cfr. A. Jodorowsky, Psicomagia. Una terapia panica, Feltrinelli, Milano 2004).

[3] Cfr. M. Tibaldi, Pratica dell’immaginazione attiva. Dialogare con l’inconscio e vivere meglio, La Lepre, Roma 2011.

[4] C.G. Jung. Ricordi, sogni, riflessioni di C.G Jung (a c. di A. Jaffé), Rizzoli, Milano 1961.

[5] Cfr. NewsbyRedazione – 29 dicembre 2020

[6] Cfr. J. Hillman, Re-visione della psicologia, Adelphi, Milano 1992.

[7] A. Pamparana, “Premessa”, in La versione di Jung. Biografia romanzata, Tab editrice, Roma 2020, p. 9.

[8] Cfr. M. Tibaldi, “L’opera al rosso. Il ‘compimento’. Stati di rubedo nell’esperienza analitica”, in S. Massa Ope-A. Rossi-M. Tibaldi (a c. di), Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica, Moretti & Vitali, Bergano 2020, pp.  170-214. M. Tibaldi, “Abitare il mondo oggi. Sogni prospettici e metafore alchemiche al tempo del Coronavirus”, in Storia e problemi contemporanei (diretto da P. Gabrielli e R. Giulianelli), Issue 80/2019, pp. 228-231. Si vedano anche i video “Jung e la metafora viva dell’alchimia”; “Effetti collaterali (della pandemia). Finalismo e metafora alchemica”.

[9] C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, cit., p. 61.

[10] Ivi, p. 74.

[11] A. Pamparana, La versione di Carl. Biografia romanzata, cit., p. 302.

[12] Cfr. M. Tibaldi, “La morte ‘amica’ e la rinascita”, in S. Massa Ope-A. Rossi-M. Tibaldi (a c. di), Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica, cit., pp. 256-258.

mercoledì 6 gennaio 2021

Marta Tibaldi, Rossore e compimento dell'opera

Marta Tibaldi

Rossore e compimento dell'opera

 


“Nel linguaggio comune il termine ‘compimento’ indica la realizzazione, il raggiungimento, la meta di un processo. Nel procedimento alchemico la rubedo fa riferimento alla realizzazione dell’“oro filosofico”, ovvero al ‘compimento’ dell’opus stesso. Nella vita di Jung molti sono stati gli stati di ‘compimento’, sia a livello personale che di produzione scientifica: si pensi, ad esempio, al Libro Rosso. Liber Novus, opera di fatto incompiuta, che trova la sua piena realizzazione molti anni dopo in Mysterium Coniunctionis, ultimo scritto di Jung e summa teorica e individuativa. 


Quando guardiamo all’esperienza psichica del ‘compimento’ attraverso la metafora alchemica, abbiamo in mente il movimento di integrazione degli opposti psichici, che caratterizza il processo di individuazione in tutto il suo svolgimento e a tutti i livelli in cui ciò si consegue nel corso dell’esistenza umana. In termini di consapevolezza cosciente, il ‘compimento’ psicofisico, raffigurato dall’immagine alchemica della rubedo, si realizza soprattutto grazie al confronto con le polarità morte-vita, la coppia psichica più difficile e radicale con cui il paziente si possa cimentare nella stanza d’analisi e nel corso della sua esistenza. 


Nel momento in cui questa dinamica psichica non agisce più soltanto in forma compensatoria – fatto che avviene soprattutto nel passaggio dalla nigredo all’albedo, come esperienza di perdita dell’inconscietà precedente – ma è còlta nei suoi aspetti complementari, come passaggio ineludibile verso la rinascita, si scopre che morte e vita concorrono insieme alla realizzazione dell’opus, alla rinascita del corpo/mente e alla vitalizzazione dell’intera esistenza.  La soggettività individuale che si unisce all’impersonalità del vivere rende possibile la realizzazione della “pietra filosofale”, ovvero il ‘compimento’ del processo analitico stesso, la piena integrazione di sé con lo spirito vitale: oltre l’esperienza di “essere diventati ciò che si è”, “si è” senza aggettivazioni nella completezza dell’esistere, là dove, arrossati dal sole alchemico e dallo spirito di vita, “la coscienza si dissolve in contemplazione. In questo senso il ‘compimento’ è nello stesso tempo sia la capacità di percepire la perfezione dell’attimo naturale, quando si manifesta spontaneamente alla coscienza e ci fa dire, con Goethe: “Ma rimani! Tu sei così bello!” (J.W Goethe, Faust (a c. di F. Fortini), Mondadori, Milano 2021, vv. 1699 s.), sia quella di costruirlo consapevolmente attraverso l’integrazione degli opposti psichici, lungo il processo di individuazione e tramite il confronto attivo con il Sé. 


Per questo l’alchimia non si può considerare un’attività spontanea dell’inconscio, quanto un processo di riflessione sull’enigma di noi stessi e della materia di cui siamo fatti:

 

Alchimia e psicologia dell’inconscio rappresentano pertanto due forme diverse – perché venute alla luce in diversi periodi storici – di riflessione sul mistero centrale della psiche, l’archetipo della congiunzione delgi opposti, proiettato sulle trasformazioni della materia da parte degli antichi adepti dell’“Arte Sacra”, riportato all’interno dell’uomo nella psicologia di Jung

(cfr. M. Pereira. “L’alchimia e la psicologia di Jung”, in Trattato di Psicologia analitica (a c. di A. Carotenuto), UTET, Torino 1992, pp. 426-4365)”

 

Tornando all’esperienza della rubedo, alla psicoanalisi integrata e agli studi neurobiologici, ritengo che il compito attuale degli psicologi analisti consista dunque, da un lato, nel rendere comprensibile il simbolismo alchemico applicato alla clinica e, dall’altro, nel trovare connessioni e integrazioni creative con teorie, conoscenze e prassi diverse, riconoscendo che l’orizzonte professionale nel quale si colloca la psicologia analitica non si limita alla cura dei problemi psichici, ma si estende e contiene la valorizzazione dell’essere umano nelle sue potenzialità consce e inconsce, personali e impersonali, alla ricerca condivisa di quell’ubi consistam interno, che orienti nella vita, qualunque cosa accada. 

(cfr. M. Tibaldi, L’opera al rosso. Il ‘compimento’. Stati di rubedo nell’esperienza analitica, in S. Massa Ope-A. Rossi-M. Tibaldi (a c. di), Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica, Moretti & Vitali, Bergamo 2020, pp. 207-210)