martedì 29 dicembre 2020

Marta Tibaldi, Emozioni a colori

Marta Tibaldi

Emozioni a colori

Non c’è dubbio che esista un legame tra le emozioni e i colori. A livello individuale ognuno di noi almeno una volta ha certamente fatto l’esperienza di preferire un colore a un altro, a seconda dello stato d’animo.  In termini culturali espressioni idiomatiche come, ad esempio, “essere di umore nero”, “diventare verde di invidia”, “arrossire per l’imbarazzo” etc. veicolano a loro volta emozioni il cui significato è compreso e condiviso a livello collettivo. 

 

Un modo per diventare consapevoli dei colori delle emozioni è sviluppare un atteggiamento riflessivo, ovvero rivolgere l’attenzione verso noi stessi e ciò che proviamo nel momento in cui ci rendiamo oggetto della nostra attenzione. Lo possiamo fare anche in questo momento: quale è il colore che qui e ora esprime al meglio il mio stato d’animo? Quale espressione idiomatica potrebbe raffigurare al meglio le emozioni che sto provando adesso?

 

Da sempre nella storia del pensiero e delle culture i colori hanno rappresentato in forma simbolica esperienze interne ed esterne. In campo psicologico-analitico Jung ipotizza, ad esempio, che la scelta dei colori sia legata alla tipologia psicologica e alla nostra funzione psichica prevalente[1]; quindi anche al nostro modo di conoscere e di rappresentarci il mondo. Ma vale sottolineare che i colori delle emozioni e le espressioni idiomatiche non danno forma soltanto ai vissuti dell’Io e alla dimensione inconscia personale, essi veicolano anche livelli psichici più ampi e profondi che riguardano il Sé e i processi d’individuazione, il ‘compimento’ dell’anima individuale e dell’Anima mundi[2]. Si legga, a questo proposito, il sogno di una paziente di cultura cinese, che dà visibilità immaginale al processo di trasformazione profonda in atto nella sua psiche e di cui la paziente è ignara a livello cosciente; movimenti inconsci che svelano una dinamica finalistica grazie al rimando alchemico:

 

“Mi trovo con alcune persone in una casa funeraria, dove si conservano le ceneri dei defunti. Un amico di famiglia è morto e le sue ceneri sono state collocate in questo spazio. Sono con altre persone e ci interroghiamo su chi debba rimanere a vegliare le ceneri del defunto. Si decide che tocca a me [si noti che ci troviamo qui in presenza di un confronto con la morte, caratteristico dello stato alchemico della nigredo]. Mi sento responsabile del compito che mi è stato affidato ma provo anche un po’ di paura, perché rimarrò da sola nella casa funeraria. Anche se non so bene come farò, accetto il compito che mi è stato affidato e penso: “Anche se dovesse essere un’esperienza orribile, troverò il modo di fare fronte” [la paziente è consapevole di dovere passare attraverso l’esperienza del nero per potere accedere a un nuovo livello di consapevolezza, rappresentato alchemicamente dall’immagine dell’albedo]. La scena cambia: sto camminando per strada, incontro una collega, che con sguardo di sorpresa mi dice: “Il tuo vestito nero è diventato rosso [il colore rosso rassicura sul buon andamento del processo in atto e sulla tendenza verso il ‘compimento’ rubedo]”. Mi guardo, e mi accorgo con sorpresa di essere vestita di rosso dalla testa ai piedi. Sebbene nella realtà indossi raramente questo colore, nel sogno so che voglio essere vestita proprio di rosso.”[3]

 

La consapevolezza del legame simbolico dei colori con le emozioni dell’Io e le trasmutazioni del Sé rende comprensibile ciò che la lettura a livello egoico non può spiegare: nel tempo attuale la comprensione transpersonale dell’esperienza pandemica ne è un lampante esempio.


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[1] Si tratta della distinzione tra tipi introversi e tipi estroversi e le funzioni del pensiero, sentimento, sensazione e intuizione (cfr. C.G. Jung (1921), Tipi psicologici, OC6, Boringhieri, Torino 1969) 

[2] Il Sé rappresenta la matrice archetipica della personalità, il suo massimo potenziale e la meta finale del processo d’individuazione, in quel movimento circolare e a spirale che il simbolo dell’Uroboro ben rappresenta. Nella teorizzazione junghiana l’Anima mundi è lo “spirito di vita” che anima il mondo, la vitalità della natura.

[3] M. Tibaldi, “L’opera al rosso. Il ‘compimento’. Stati di rubedo nell’esperienza analitica”, in S. Massa Ope, A. Rossi, M. Tibaldi (a cura di), Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica, Moretti & Vitali, Bergamo 2020, p. 197.

mercoledì 23 dicembre 2020

Marta Tibaldi, Tutti i colori del bianco. Cauda pavonis e albedo


Marta Tibaldi

Tutti i colori del bianco. 

Cauda Pavonis e albedo


Nell'immaginario alchemico l'immagine della cauda pavonis (coda del pavone) unisce in sé tutti i colori dell’arcobaleno e per questo dà forma simbolica a un’esperienza di totalità. Nel processo alchemico i molti colori della coda del pavone indicano il passaggio dalla fase della prima materia oscura e del caos degli elementi – in termini psichici i vissuti di depressione e di mancanza di orizzonte che ci fanno vedere tutto “nero” - a quella del bianco, l’albedo, il colore che rappresenta l’uscita dall’oscurità psichica, la presa di coscienza della dimensione ‘colorata’ e inconscia della mente.  Nel processo alchemico l’albedo è la prima meta del processo di trasmutazione delle sostanze e simbolicamente si muove in parallelo con il passaggio dall’inconscietà alla consapevolezza nel processo d’individuazione. L’esperienza alchemica e individuativa trasmutano quindi nella rubedo, lo stato “solare” (rosso), nel quale lo “spirito di vita” riscalda la prima materia, ormai illuminata dalla consapevolezza cosciente, infondendole nuova vita:

 

“La nerezza, la nigredo è lo stato iniziale [del processo alchemico]: [esso è] o preesistente come qualità della prima materia, del caos o della massa confusa, oppure provocato dalla decomposizione (solutio, separatio, divisio, putrefactio) degli elementi. Se, come talvolta accadeva, si partiva dallo stato di decomposizione, poi si procedeva a un’unione degli opposti sul modello dell’unione di maschile e femminile (il cosiddetto coniugium, matrimonium, coniuntio, coitus) seguito dalla morte del prodotto dell’unione (mortificatio, calcinatio, putrefactio) e corrispondente innerimento. Dalla nigredo si poteva passare mediante lavaggio (ablutio, baptisma) o direttamente all’imbianchimento, oppure l’anima fuggita dal corpo al momento della morte era unita nuovamente al corpo morto per vivificarlo, oppure ancora i molti colori (omnes colores, cauda pavonis) servivano di passaggio a un colore unico, il bianco, contenente tutti i colori. Con ciò era raggiunta la prima meta principale del processo, ossia l’albedo, tinctura alba, terra alba foliata, lapis albus ecc., meta che certi autori decantavano in modo tale quasi si trattasse della meta definitiva. Era lo stato argenteo o lunare, che però doveva essere ancora innalzato allo stato solare. L’albedo è, in certo qual modo, l’alba; ma soltanto la rubedo è il sorgere del sole. Il passaggio alla rubedo è costituito dall’ingiallimento (citrinitas), il quale […] venne più avanti soppresso[1]. Aumentando l’intensità del fuoco fino al suo grado massimo, la rubedo sorge direttamente dall’albedo. Il bianco e il rosso denotano la Regina e il Re, che anche in questa fase possono celebrare le loro nuptieae chymicae(C.G. Jung, Psicologia e alchimia, OC12, Boringhieri, Torino 1992, pp. 229-230).



[1] Nel quindicesimo-sedicesimo secolo i quattro colori del processo alchemico - melanosi (innerimento), leucosi (imbiancamento), xanthosi (ingiallimento) e iosi (irrossimento), sono ridotti a tre. La la xanthosi, detta anche cinitritas cadde infatti in disuso. In alcuni testi si fa riferimento a volte anche alla viriditas, il colore verde, ma nel corso del tempo le fasi del processo alchemico si assestarono definitivamente intorno ai tre colori del nero, del bianco e del rosso.


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lunedì 21 dicembre 2020

Marta Tibaldi, Depressione: indietreggiare per saltare meglio

Marta Tibaldi

Depressione: indietreggiare per saltare meglio



    Jung usa l’espressione “reculer pour mieux sauter” (indietreggiare per saltare meglio) per descrivere la stagnazione dell’energia psichica che caratterizza l’esperienza della depressione. A differenza del movimento progressivo della libido, che comporta “l’avanzamento quotidiano del processo psicologico di adattamento”[1], nella stagnazione psichica la persona depressa sperimenta una perdita di energia. Essa è causata da una regressione libidica che con il suo movimento retrogrado va a costellare contenuti inconsci precedentemente rimossi o mai giunti alla coscienza. La depressione, scrive Jung: “[…] aumenta il valore dei contenuti che prima erano esclusi dal processo cosciente di adattamento, [i quali] sono di norma ‘oscuramente consci’, o del tutto inconsci". 


    Sebbene a una valutazione superficiale l’esperienza della depressione possa apparire soltanto negativa, perché fa affiorare alla coscienza “il fango e la sozzura” dei contenuti e delle emozioni che si agitano oscuramente sul fondo della personalità, in realtà “[…] in questi materiali è possibile individuare non solo residui incompatibili e quindi respinti dell’esistenza quotidiana, o tendenze primordiali, incomode e riprovevoli dell’uomo animalesco, ma anche germi di nuove possibilità di vita. […] E’ [infatti] uno dei grandi valori della psicoanalisi portare alla luce senza vergogna i contenuti incompatibili, cosa che rappresenterebbe un avvio perfettamente inutile, e anzi da respingere, se proprio nei contenuti rimossi non vi fossero le possibilità di un rinnovamento dell’esistenza.[2]

Senza volere negare i pericoli della depressione, soprattutto quando è prolungata e non compresa nella sua richiesta trasformativa, Jung invita a considerarla un’esperienza di nigredo che chiede alla persona depressa un ampliamento della coscienza (albedo) verso il riequilibrio e la rigenerazione della personalità totale (rubedo). 


Guardare alla depressione come a una prima materia da trasmutare, significa imparare ad accogliere anche i momenti oscuri dell’esistenza, integrandone il potenziale trasformativo. (Il quadro è Sulla soglia dell’eternità è di Vincent van Gogh)

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[1] “I concetti fondamentali della teoria della libido”, OC8, La dinamica dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1976, p. 41.

[2] Ivi, pp. 43-44.

sabato 5 dicembre 2020

Marta Tibaldi, Immagine tra le immagini

Marta Tibaldi

Immagine tra le immagini



Al pari della circumambulatio alchemica, che ruota intorno alle trasmutazioni della prima materia, si dirige verso la costruzione della "Pietra" e racconta questo percorso con immagini simboliche, anche il processo d’individuazione descritto da Carl Gustav Jung si snoda a spirale dall’iniziale stato psichico di confusione e di oscurità (nigredo), alle prese di coscienza che generano nuova consapevolezza (albedo), fino all’integrazione di materia e spirito (rubedo). James Hillman invita a guardare in termini simbolici non soltanto questi processi ma anche noi stessi, rendendo rendendoci “immagini tra le immagini”:


“Sviluppare un approccio psicologico immaginale, guardare in trasparenza, vuole dire avere un atteggiamento che riconosca la natura immaginale della mente e vi entri in relazione dinamica. Significa essere consapevoli che la nostra mente rappresenta se stessa sotto forma di immagine e metaforicamente si racconta. Questa attività immaginativa è mia, in quanto avviene in me e io la riconosco come tale, ma è anche non-mia, perché autonoma rispetto alla mia soggettività. E’ questa la prospettiva impersonale cui fa riferimento Hillman e su cui egli ha concentrato la propria attenzione. Il che non significa, ovviamente, che la dimensione soggettiva e personale sparisca o non esista più: semplicemente, l’attenzione della psicologia archetipica si rivolge maggiormente agli aspetti psichici impersonali, e di questi argomenta.

 

Vorrei definire con un’immagine la posizione della psicologia archetipica rispetto a quella della psicologia del profondo in generale: una barca a vela che naviga di bolina. Sappiamo che quando andiamo a vela con quest’andatura e il vento soffia forte di lato inclinando la barca, a un certo punto è necessario sporgersi dall’altra parte, per evitare di scuffiare. Bisogna cioè sbilanciarsi fortemente nella direzione opposta rispetto a quella dove si era, per evitare che la barca si rovesci.

Si potrebbe dire che il vento dell’analisi del profondo ha soffiato per molto tempo in direzione della soggettività conscia e inconscia, lato sul quale gli analisti del profondo si erano assestati e da cui veleggiavano. Con il passare del tempo, questa posizione è arrivata al punto limite dello sbilanciamento, esponendo al rischio di finire in acqua, a meno di non spostarsi velocemente sul lato opposto.

 

Hillman è andato dall’altra parte, si è spostato dal lato del personale e soggettivo a quello dell’impersonale e oggettivo, e ha veleggiato formulando le sue teorie da questo diverso vertice di osservazione. Ma non bisogna dimenticare che Hillman è stato colui che ha invitato a guardare in trasparenza anche i paradigmi teorici[1], affermando che la psicologia archetipica rappresenta un momento dinamico del viaggio psicoanalitico e, in quanto tale, il suo assetto richiederà nel tempo cambiamenti e assestamenti. Al pari di ogni manifestazione psichica, anche la psicologia archetipica è una narrazione metaforica e dinamica di una verità più profonda e comune al genere umano: il nostro essere materia che produce immagini.


[…] Alla psicologia archetipica [e alchemica] non basta la presa di coscienza delle dimensioni oggettive e impersonali della psiche, ma interessa anche lo svuotamento dell’Io, la percezione che noi stessi siamo immagini e così ci possiamo raccontare. La nostra identità egoica, la nostra esistenza – e, in ultima analisi, la nostra stessa morte, come Hillman ha testimoniato in prima persona -, se considerate dal punto di vista dell’attività mitopoietica della mente, sono anch’esse immagini in movimento, espressioni metaforiche di quella creatività psichica naturale che si esprime, appunto, attraverso un flusso ininterrotto di immagini. Nel momento in cui riusciamo a percepire la nostra identità soggettiva come un’immagine tra le immagini, scopriamo che - come dice Prospero nel famoso monologo de La Tempesta di Shakespeare – siamo davvero fatti “della stessa materia dei sogni e la nostra breve vita è circondata dal sonno.”[2]


Copyright 2020

[1] J. Hillman, Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, Adelphi, Milano 1997.

[2] Cfr. M. Tibaldi, “La pratica delle immagini”, in James Hillman. Verso il sapere dell’anima (a c. di F. Donfrancesco), Anima 2012, Moretti & Vitali, Bergamo, pp. 348-350.