mercoledì 25 novembre 2020

Marta Tibaldi, La conversione della mente

Marta Tibaldi

La conversione della mente

Nella giornata contro la violenza sulle donne (e sul femminile psichico) vorrei ripotare alcune considerazioni di Annarosa Buttarelli, che in Sovrane. L’autorità femminile al governo (Il Saggiatore, Milano 2017) teorizza la necessità di una “conversione trasformatrice della mente [degli uomini e delle donne]”: 

“L’eterna istanza del femminismo […] non riguarda più solo la vigilanza sui diritti, non riguarda l’uguaglianza di trattamento economico, anche se non la esclude, ma riguarda il conflitto tra forme della mentetra ordini simbolici. Non riguarda più lo scontro tra uomini e donne, che pure esiste ancora, ma poiché le coordinate di questo conflitto ci sono ben chiare, il livello da un po' di tempo è un altro: è il conflitto tra le forme della mente, tra gli ordini simbolici che si stanno contendendo il mondo tra loro.” (ivi, pp. 15-16). 

Con le dovute differenze, la riflessione di Buttarelli va in parallelo con quanto si chiede Riane Eisler in Il calice e la spada. La presenza dell’elemento femminile nella storia da Maddalena a oggi (Frassinelli, 2006): “E’ realisticamente possibile il passaggio da un sistema di guerre incessanti, di ingiustizia sociale e di squilibrio ecologico a un sistema che porti alla pace, alla giustizia sociale e all’equilibrio ecologico? E soprattutto, quali cambiamenti della struttura sociale renderanno possibile questa trasformazione?” (ivi, p. 3). Nel descrivere due modelli organizzativi, “quello androcratico, violento e autoritario (simboleggiato dalla spada), e quello ginocentrico, fondato sulla collaborazione e la parità tra i sessi (simboleggiato dal calice), Eisler individua nella “gilania” “una forma di pensiero completamente altra rispetto a quella del pensiero patriarcale, che è caratterizata dal predominio del sesso maschile della subordinazione di quello femminile” (p. X).

Nel 2013 il medico, scrittore e fotografo argentino Ricardo Coer si spinge in Cina, fino alla provincia dello Yunnan, lungo le sponde del lago Lugu, per documentare la cultura della minoranza etnica matrilineare dei Mosuo e il loro modo di intendere il matrimonio (Il regno delle donne, Nottetempo, Roma 2013).
Si tratta di una forma di matrimonio (axia) che Coer definisce "ambulante" e che somiglia ben poco a quello occidentale: “Ognuno vive a casa propria, e di notte l’uomo va a trovare nella sua camera la donna con cui ha fissato un appuntamento. La parola xia significa “amanti”, e il prefisso a sta a indicare intimità” (p. 29). Questo tipo di relazioni tra donne e uomini Mosuo non comporta alcun vincolo: “La visita dura quanto la notte e non implica che ci si debba vedere di nuovo. […] Sia gli abitanti di altri villaggi, sia i forestieri possono avere un axia con le donne Mosuo, che però non esitano a lasciare fuori dalla porta chi si mostri poco gentile o si esprima in termini scurrili.” (pp. 29-30).

Le famiglie Mosuo ruotano esclusivamente intorno alle madri e alle nonne e non contemplano “l’idea dell’uomo o della donna ideali, la fantasia che tra i rappresentanti dell’altro sesso ci sia qualcuno che è la nostra esatta metà, e che ci voglia un po’ di buona volontà per incontrarlo”. Questa è una caratteristica della cultura occidentale e, aggiunge Coer, “un’incomparabile materia prima per la fabbrica dell’insoddisfazione. […] Le Mosuo professano la saggezza di quel che non c’è, di ciò che non si può avere, una saggezza che le preserva da quelle illusioni che, restando disattese, le lascerebbero deluse, con il rischio di trasformare in costanti passeggere del treno della lagnanza. E’ come se non sperassero di trovare, in un uomo, niente di diverso da ciò che trovano” (pp. 174-175).

Leggendo le parole di Coer non si può fare a meno di riflettere sulla differenza che intercorre tra il “matrimonio ambulante” delle donne Mosuo, quello religioso occidentale, con le sue caratteristiche di fedeltà e di indissolubilità e il "matrimonio individuativo" di cui parla Adolf Guggenbuehl-Craig in Matrimonio. Vivi o morti ( Moretti & Vitali, Bergamo 2000):  “Il matrimonio [è] un itinerario di sviluppo e di trasformazione dell’intera personalità, [...] perché obbliga uomo e donna al confronto con gli aspetti più oscuri, sgradevoli e difficili dell’incontro e dell’amore, e con i molteplici aspetti “normali” e “anormali” della sessualità”.  

Il “matrimonio ambulante” delle donne Mosuo, il matrimonio cattolico, il "matrimonio individuativo" sono tre realtà psicologiche e antropologico-culturali diversissime tra loro. In occasione della giornata contro la violenza sulle donne possono essere uno stimolo di riflessione verso la "conversione trasformatrice della mente".

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martedì 24 novembre 2020

Marta Tibaldi
La speranza oltre la morte. Iside e la rinascita
In questo post mi voglio ricollegare allo spunto offerto da Valeria Bianchi Mian in Psicologia alchemica (@psicologialchemica) sul tema di Iside e Osiride per riproporre parte di un mio lontano scritto, nel quale descrivevo come fosse stato possibile trasformare, grazie a un’immaginazione attiva[1], l’incontro immaginale con un Eros maschile distruttivo, che aveva preso la forma di uno "stupro dell'anima".
In quell’esperienza emerse spontaneamente l’immagine della dea Iside, che, in termini alchemici oggi come allora, testimonia il potere generativo della coniunctio delle polarità maschile/femminile nell’opus individuativo di ciascuno di noi:

“[…] Seguendo le immagini che giungono dalla psiche profonda – una prima materia che ha preso dapprima la forma di una gelatina verde per trasformarsi poi in un magnifico smeraldo – mi sono trovata in Egitto, davanti al “dio verde” Osiride e la sua sposa Iside. Come è noto, in Egitto il mito di Osiride è anche quello di Iside, la dea che rappresenta la fiducia femminile nel potere rivivificante dell’amore, oltre l’esperienza della morte.
Iside, dopo avere sofferto in tutta la sua drammaticità l’incontro con il principio maschile negativo incarnato dalla figura di Seth, trasforma la morte dello sposo Osiride in rinascita: la dea ricompone gli arti smembrati del marito, ne ricostruisce il fallo disperso e genera il figlio Horus, la nuova progenie, immagine del mondo materiale rinnovato.
Nel mito Osiride, “il dio stanco”, rappresenta una modalità maschile ormai priva di vitalità, che rinasce grazie all’impegno di Iside. L’amore e la perseveranza della dea rivivificano il dio con coraggio, sacrificio e devozione, andando oltre la morte. L’ indomabile fiducia di Iside nel potere dell’amore e della vitalità profonda rende così possibile la rinascita del principio maschile e il concepimento di Horus, il filius alchemico che rappresenta il superamento creativo della morte e dunque la rinascita (rubedo).”[2]
[1] Cfr. M. Tibaldi, “Raping the Soul. An Experience of Active Imagination”, in Florence 98. Destruction and Creation. Personal and Cultural Transformation. Proceedings of the Fourteenth International Congress for Analytical Psychology (ed. By M.A. Mattoon), Daimon Verlag, Einsiedeln, Switzerland 1999, pp. 208-219.
[2] Ivi.
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sabato 21 novembre 2020

Gruppo di parola per psicoterapeuti "Adesso è più difficile"

 

GRUPPO DI PAROLA GRATUITO

PER PSICOTERAPEUTI

Scambio e supporto tra pari in tempi di crisi

Il sabato, una volta al mese, dalle 11:00 alle 12:30

(Previa prenotazione)

 

“Adesso è più difficile”

 

Dott. MARTA TIBALDI

Psicologa-Psicoterapeuta

Psicologa analista (AIPA-IAAP)

 


Nel marzo 2020, durante il primo lockdown da Covid-19, ho realizzato il video Volevo fare il paziente – gruppo di parola per psicoterapeuti per presentare il gruppo omonimo su Facebook. Il titolo riprendeva alcune parole che Stefano, il protagonista del film Transfert di Massimiliano Russo (2017), diceva al termine della sua breve carriera di psicoterapeuta. Coinvolto in una situazione professionale difficile, aveva avuto un crollo emotivo, ma la sua crisi gli aveva permesso di dare voce a un bisogno infantile mai espresso: avrebbe voluto fare il paziente piuttosto che lo psicoterapeuta.

 

Come sappiamo, nella stanza d’analisi il paziente e lo psicoterapeuta incarnano due facce della stessa realtà, anche se declinate in modo diverso. L’immagine del “guaritore ferito” illustra simbolicamente questa situazione bifronte e ricorda l’importanza dell’analisi personale (“fare il paziente”) nella formazione del futuro psicoterapeuta. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha immesso nei setting psicoterapeutici - che sono passati, tra l’altro, dalla modalità in presenza a quella online - vissuti di stress traumatico acuto e cronico che hanno coinvolto pazienti e psicoterapeuti (pandemic fatigue).

Se al tempo del Covid-19 ai pazienti sono stati offerti molte possibilità di ascolto, gli psicoterapeuti hanno invece continuato a svolgere il proprio lavoro contando soprattutto su risorse individuali e su reti personali di supporto. Volevo fare il paziente – gruppo di parola per psicoterapeuti - “Adesso è più difficile” vuole essere una risposta all’esigenza di condivisione, di supporto e di scambio anche degli psicoterapeuti in un tempo e per un tempo eccezionale come quello della pandemia e dell’isolamento.

 

Volevo fare il paziente – gruppo di parola per psicoterapeuti  - “Adesso è più difficile” è un gruppo di scambio tra pari che si svolge in modalità online di sabato, una volta al mese, dalle 11 alle 12:30 con un massimo di otto e un minimo di cinque persone. La partecipazione è gratuita ed è riservata agli psicoterapeuti abilitati.

 

Per le prenotazioni si prega di inviare una mail a:

info@martatibaldi.com

indicando nome, cognome e indirizzo mail, la scuola di specializzazione e l’iscrizione all’albo degli psicoterapeuti.


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lunedì 16 novembre 2020

Marta Tibaldi, Quando i pazienti si innamorano dell'analista. Transfert erotico e coniunctio oppositorum

Marta Tibaldi

Quando i pazienti si innamorano dell'analista.

Transfert erotico e coniunctio oppositorum


I vissuti transferali, ovvero le proiezioni di contenuti inconsci da parte del/della paziente sulla figura dell’analista, sono un fenomeno che si costella in modo costante nel corso di un’analisi del profondo e rappresenta per paziente un’esperienza ad altissima potenzialità trasformativa. Il transfert erotico, in particolare, se riconosciuto e restituito per ciò che significa archetipicamente – “l’unione di forma e materia”, ovvero la forma psichica della materia che si rivivifica - offre al paziente un’esperienza di coniunctio oppositorum che rimanda alla creazione del Sé, lungo il processo d’individuazione:

 

“[…] Jung considera l’opus alchemico metafora del processo d’individuazione, di quel dinamismo vitale che è presente in ogni essere umano e che tende al suo più completo e compiuto sviluppo psicofisico. Da questa prospettiva, la metafora alchemica ha rappresentato per Jung “un servizio inestimabile”, perché lo ha aiutato a comprendere e a descrivere in primis il suo stesso processo d’individuazione, offrendogli la possibilità di illustrarlo nei suoi aspetti essenziali.[1]  Nel corso dell’esistenza, il processo d’individuazione e le relative esperienze di “compimento”  [la rubedo alchemica] possono prendere forme diverse: intrapsichiche, interpersonali, culturali, sociali o globali […] Nella stanza d’analisi il processo d’individuazione si manifesta inoltre, in modo del tutto caratteristico, attraverso le dinamiche di transfert, ovvero la proiezione da parte del paziente di contenuti inconsci sull’analista: 

 

Dall’analisi pratica è risultato che i contenuti inconsci appaiono sempre ‘proiettati’ a tutta prima su persone e situazioni oggettive. Molte proiezioni vengono definitivamente integrate all’individuo attraverso il riconoscimento della loro appartenenza oggettiva; altre invece non si lasciano integrare e, distaccandosi dai loro oggetti originari, si trasferiscono poi sul terapeuta.[2]

 

Nel caso del cosiddetto “transfert erotico” in particolare, ovvero quando il paziente o la paziente si innamorano dell’analista, si tratta di movimenti psichici che mettono in scena, sotto forma dell’attrazione del maschile e del femminile proiettati sulla coppia analitica, la tensione individuativa verso l’unione degli opposti e la conseguente generatività simbolica (il filius alchemico). Clinicamente l’attivarsi di un transfert erotico o sessuale rappresenta uno snodo psichico di grande potenzialità trasformativa, che richiede di essere compreso simbolicamente e mai agìto nella realtà, pena il collasso dello spazio analitico e della stessa possibilità di trasformazione psichica e di “compimento” da parte del paziente. L’immagine alchemica che rappresenta questo desiderio di “compimento” è la coniunctio (unione): “un’immagine […] che occupa da sempre una posizione eminente nell’evoluzione spirituale dell’uomo”[3], simbolo per eccellenza dell’unione di sostanze dissimili, la cui tensione contiene in sé la spinta trasformativa verso l’integrazione psichica e il relativo “compimento”. In analisi è fondamentale riconoscere la valenza simbolica degli innamoramenti transferali, de-letteralizzandoli: una loro eventuale messa in atto non porta affatto all’esperienza della coniunctio quanto piuttosto alla perdita di questa possibilità interna. In analisi il sentimento d’amore è la forma psichica della materia che si rivivifica (rubedoe come tale deve essere compreso e integrato alla coscienza: esso rappresenta la possibilità di fare propria l’esperienza del “compimento”, realizzando il potenziale psicofisico di totalità, simbolizzato da quella proiezione transferale: 

 

L’immagine della coniunctio emerge sempre in un momento cruciale dell’evoluzione spirituale dell’uomo. […] L’inconscio attivato appare come un miscuglio di contrari scatenati, ed esige che si tenti di riconciliarli cosicché ne emerga, come gli alchimisti dicono, il grande rimedio universale, la medicina catholica. […] L’elaborazione della prima materia, del contenuto inconscio, esige infinita pazienza, perseveranza, equanimità, sapere e capacità da parte del terapeuta; ma dal paziente esige l’applicazione delle sue forze migliori[4] e una capacità di sofferenza che non risparmia neanche colui che lo cura.”[5]

 

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[1] C.G. Jung, Jung parla. Interviste e incontri (a c. di R.F.C. Hull), Adelphi, Milano 1995, pp. 294-296.

[2] C.G. Jung (1946), “La psicologia dellla traslazione illustrata con l’ausilio di una serie di immagini alchemiche”, OC16, Pratica della psicoterapia, Boringhieri, Torino 1981, p. 182.

[3] Ivi, p. 181.

[4] Ivi.

[5] Cfr. M. Tibaldi, “L’opera al rosso. Il “compimento”. Stati di rubedo nell’esperienza analitica”, in S. Massa Ope, A. Rossi, M. Tibaldi (a cura di), Jung e la metafora viva dell’alchimiaImmagini della trasformazione psichica, Moretti e Vitali, Bergamo 2020, pp. 187-189.

sabato 14 novembre 2020

Marta Tibaldi, Bagnomaria

 Marta Tibaldi

Bagnomaria

Non tutti sanno che il procedimento per cuocere le vivande a “bagnomaria” prende il nome dall’antica pratica alchemica del “bagno di Maria”, un’operazione caratteristica dell’alchimia ellenistica, usata per secoli dagli aspiranti alchimisti per trasformare la prima materia nell’oro filosofico[1]. In ambito culinario il “bagnomaria” è una forma di cottura indiretta – il recipiente con il cibo è messo in un altro recipiente a sua volta immerso in un liquido scaldato dal fuoco - che, non esponendo i cibi al contatto diretto con la fiamma, permette di dosare il calore  in modo lento e accurato. 


 

Il termine “bagnomaria” deriva da “bagno in acqua” e da “Miriam”, il nome della sorella di Aronne e di Mosè, che ebbe fama di essere una grande alchimista; si potrebbe però trattare anche dell'alchimista “Maria la Giudea”, vissuta ad Alessandria d’Egitto tra il I e il III secolo dopo Cristo. La cottura a bagnomaria richiede attenzione, tempo e cura e in questo senso ripropone alcune modalità caratteristiche dell’opus alchemico, che realizzava il "compimento" (rubedo)[4], la creazione del Lapis, attraverso numerose distillazioni e calcinazioni  (solve et coagula). Nella cucina di oggi, come nel laboratorio alchemico del passato, la cottura a “bagnomaria” rimanda ai processi di trasformazione delle sostanze e al loro passaggio dal crudo al cotto. Claude Levi-Strauss in un suo famosissimo scritto sostiene che questa transizione rappresenta uno degli elementi fondativi delle culture umane e della civiltà[2] . All'origine del processo di trasformazione antropologico e alchemico il fuoco segna infatti il passaggio dell’umanità dallo stato di natura a quello di cultura e avvia il processo dell'opera, perché “Nello stesso momento in cui gli uomini cominciano a produrre il fuoco, il fuoco comincia a produrre gli uomini.”[3]


 

Ancora oggi il procedimento del “bagnomaria” contiene, seppure in modo inconsapevole per molti di noi, la memoria delle trasformazioni alchemiche dei metalli vili in oro, rimettendoci nel solco dell'alchimia pratica e delle sue trasmutazioni.  

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[1] Cfr. J. Raff, Jung e l’immaginario alchemico, Edizioni Mediterranee, Roma 2008.

[2] C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 2016

[3] M. Niola, “Cultura uguale cucina. La legge di Lévi-Strauss”, La Repubblica – 31 luglio 2016

[4] Cfr. M. Tibaldi, “La rubedo. Stati di compimento nell’esperienza analitica”, in S. Massa Ope, A. Rossi, M. Tibaldi (a c. di), Jung e la metafora viva dell’alchimia. Immagini della trasformazione psichica, Moretti e Vitali, Bergamo 2020. 


giovedì 12 novembre 2020

Marta Tibaldi, Sale q.b.

Marta Tibaldi


Sale q.b.

 


 "Sale q.b." è un’espressione che si usa nelle ricette di cucina per indicare la giusta quantità di sale da utilizzare nelle diverse preparazioni. 

 

"Amaro di sale" - dice una paziente in seduta - raccontando un sogno durante il quale ha salato troppo il cibo che stava cucinando, rendendolo immangiabile. 

 

"Sciapo, sciocco" è un modo per definire una pietanza, o una persona, che è “priva di succo” (exsuccus), ovvero insipida. 

 

Quando guardiamo queste espressioni di uso quotidiano attraverso la lente della metafora alchemica, scopriamo tre diversi modi di relazione tra l'Io e l'inconscio

Da questa prospettiva, che è tipica della psicologia analitica junghiana, l'elemento "sale" diventa l'immagine simbolica di psicodinamiche relazionaliche si collocano lungo un continuum: a un estremo troviamo l'esperienza psichica del  "troppo salato", ovvero, ad esempio, l'amarezza dei vissuti di tristezza o di risentimento; dall'altro, un'esistenza caratterizzata da poca energia psichica e da depressione, mentre nel mezzo la saggezza e la centratura psichica, sostenute da un Eros vitale. 

 

Da questa prospettiva la metafora alchemica del sale può essere utilizzata nel rapporto con noi stessi come indicatore del nostro benessere o malessere psichicoprendendo coscienza di quanta sapidità ci sia da aggiungere o da togliere nel momento in cui ci osserviamo: come è la nostra esistenza? troppo amara, poco saporita, ben equilibrata?

 


Insieme allo zolfo e al mercurio, in alchimia il sale è uno dei tre principi dell’opus e ha anch’esso caratteristiche relazionali: rappresenta la cenere che residua dal processo della calcinatio, dall’intenso riscaldamento dello zolfo, che separa l’acqua e tutti gli altri componenti volatili (mercurio) della prima materia. La calcinato produce la polvere secca del sale, che ha la caratteristica di contenere in sé, in forma trasformata, le energie delle sostanze bruciate. Rimanda simbolicamente all’immagine dell'araba Fenice, l'uccello mitico che muore e rinasce dalle proprie ceneri in forme sempre rinnovate. Il sale alchemico è per questo simbolo psichico di resilienza, ovvero della capacità vitale di rinascere da noi stessi, anche dopo il confronto con la morte.



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lunedì 9 novembre 2020

Marta Tibaldi, Jung e la scoperta dell'alchimia


Marta Tibaldi

Jung e la scoperta dell'alchimia


Nei suoi ricordi Jung racconta di un sogno fatto nel 1926 che anticipò il suo incontro con l’alchimia.[1] All’epoca egli non aveva una grande considerazione dell’arte alchemica, che gli appariva “piuttosto marginale e ridicola”[2]. Dell’alchimia aveva potuto apprezzare soltanto il punto di vista anagogico, il cui significato spirituale era stato messo in evidenza in Probleme der Mystik und ihre Symbolik[3] dallo psicoanalista viennese Herbert Silberer, suo collega. Quest’ultimo era morto suicida a quarant’anni e Jung ritenne che la sua morte e il suo scritto esprimessero il medesimo problema: “egli vide le cose, ma non le visse”,[4] intendendo con queste parole che Silberer non avesse còlto “i tesori che [gli scritti alchemici] nascondono”, ovvero le dinamiche di trasformazione della personalità e del rapporto con l’Anima mundi, cui essi alludono simbolicamente.

 

Ma vediamo ora il sogno:

 

Ero nel Sud-Tirolo, in tempo di guerra. Mi trovavo sul fronte italiano e rientravo dalle prime linee con un piccolo uomo, un contadino, sul suo carro tirato a un cavallo. Intorno esplodevano granate, e mi rendevo conto che dovevamo affrettarci il più possibile, perché c’era pericolo. 

Dovevamo attraversare un ponte e poi passare attraverso un tunnel la cui volta era stata parzialmente distrutta dalle granate. Arrivando alla fine del tunnel vedevamo dinanzi a noi un paesaggio soleggiato, e riconoscevamo la regione veronese. La città era ai miei piedi, radiosa nella luce del sole. Ne provavo sollievo, e avanzavamo nella verde, fertile pianura lombarda. La strada portava attraverso un’incantevole campagna primaverile: vedevamo i campi di riso, gli olivi, le vigne. Poi, lungo la strada, diagonalmente, vedevo un grande edificio, un castello di grandi proporzioni, piuttosto simile a un palazzo ducale dell’alta Italia. Era un tipico maniero con molte dipendenze e costruzioni laterali Proprio come al Louvre, la strada passava davanti al castello attraverso una grande corte. Io e il piccolo contadino giungevamo a un portone, e da qui potevamo vedere di nuovo, attraverso un secondo portone all’estremo opposto, il paesaggio soleggiato. Mi guardavo intorno: alla mia destra era la facciata del maniero, alla mia sinistra le stanze della servitù e le stalle, i granai, e altri edifici minori, allineati.

Appena giungevamo nel bel mezzo della corte, dirimpetto all’entrata principale, avveniva qualcosa che non ci aspettavamo: con un sordo fragore tutti e due i portoni si chiudevano. Il contadino balzava da cassetta, ed esclamava: “Ora siamo prigionieri del secolo XVIII!”. Rassegnato, pensavo: “Già, è così! Ma che cosa si deve fare? Ora saremo prigionieri per anni!” Poi mi veniva un pensiero consolante: “Un giorno, dopo anni, sarò di nuovo fuori.”[5]

 

Fu la successiva lettura de Il Segreto del fiore d’oro, un testo alchemico cinese, donatolgi nel 1920 dal sinologo Richard Wilhelm, che spinse Jung a interessarsi agli scritti degli alchimisti, riconoscendone la ricchezza simbolica. All'epoca la curiosità nei confronti dell’alchimia spinse Jung a farsi mandare da un libraio di Monaco tutti i testi reperibili sull’argomento, anche se il primo che gli fu spedito, Artis Aurifera Volumnia Duo (1953), lo lesse soltanto due anni dopo. La posizione di Jung nei confronti dell’alchimia continuava ad essere ambivalente, come egli stesso ebbe a dichiarare: “I testi mi davano ancora l’impressione di un’evidente assurdità, ma qua e là c’erano passi che mi sembravano significativi, e talvolta trovavo anche affermazioni che ritenevo di poter capire.”[6] . Come era accaduto durante la crisi che segnò la sua esistenza, dopo la rottura del suo rapporto personale e scientifico con Freud, crisi che egli superò con metodo e disciplina[7], Jung scelse di continuare a leggere e a studiare ciò che ancora non capiva, fino a quando non si rese conto che si trattava di un linguaggio altamente simbolico e che espressioni particolari quali “solve et coagula”, “prima materia”, “lapis”, “Mercurius” etc. si ripetevano in modo regolare con un significato specifico.  Affascinato da questa scoperta, ricordò il sogno del 1926, nel quale era prigioniero del secolo XVII, e ne capì il significato: doveva studiare l’alchimia a fondo, risolvendo l’enigma di quel linguaggio sconosciuto con metodo filologico: “[…] il caratteristico linguaggio dell’alchimia un po’ alla volta mi rivelò il suo significato. Fu un lavoro che mi assorbì per oltre dieci anni.”[8] Scoprì così che le dinamiche inconsce che aveva sperimentato negli anni della sua crisi personale e scientifica e i processi alchemici dei testi che aveva letto descrivevano il medesimo percorso trasformativo e condividevano entrambi due finalità: il salvataggio dell’anima umana e la salvazione del cosmo. 

Fu soltanto con la scrittura di Mysterium Coniunctionis, sua ultima fatica e summa teorica[9], che Jung sentì di avere concluso il confronto tra l’alchimia e la sua psicologia complessa[10]: “[…] il mio compito era adempiuto la mia opera terminata. […] raggiunsi allo stesso tempo i limiti di ciò che potevo afferrare scientificamente, il trascendente, l’essenza dell’archetipo in sé, su cui non si possono più fare affermazioni scientifiche. […] ciò che dovevo dire, è stato detto.”[11]


[1] Cfr. C.G. Jung, Sogni, ricordi e riflessioni di C.G. Jung (a c. di A. Jaffé), Rizzoli, Milano 1978, pp. 247-248.

[1] Ivi, p. 249.

[1] A. Silberer, Probleme der Mystik und ihre Symbolik, Wien 1914 (tr. It. Problemi della mistica e del suo significato simbolico, La Biblioteca di Vivarium, Milano 1999).

[1] C.G. Jung, Sogni, ricordi, riflessioni di C.G. Jung, cit., p. 249.

[1] Ivi, pp. 247-248 (il corsivo è mio).

[1] Ivi, p. 249.

[1] Cfr.M. Tibaldi, “Jung a confronto con l’inconscio: una descrizione autobiografica dell’immaginazione attiva”,  Studi Junghiani

[1] Ivi, p. 250.

[1] C.G. Jung, Mysterium Coniunctionisi, OC14/1 e 2, Bollati Boringhieri, Torino, 1979.

[1] Cfr. M. Tibaldi, C.G. Jung: a proposito di “psicologia analitica” e “psicologia complessa” – martatibaldi.blogspot.com - 31 agosto 2020.

[1] Ivi, pp. 268-269.

 

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mercoledì 4 novembre 2020

Lo scaltro Hermes


Marta Tibaldi
Lo scaltro Hermes

    Nell’esperienza analitica del profondo, il dio greco Hermes, conosciuto nel mondo latino con il nome di Mercurio, rappresenta “il dio della rivelazione, ingannevole e insieme saggio”. In termini simbolici, il dio dà forma alla dinamica dell’inconscio, che si manifesta, nella stanza d’analisi, con “azioni completamente opposte”.  “Mercurio” è dunque il nome con cui, nella pratica del profondo che utilizza come riferimento la metafora alchemica, si designa la natura paradossale dell’inconscio, che “non è unicamente una forza naturale e malvagia, ma anche la fonte dei beni più alti; esso [l’inconscio] è non soltanto oscuro, ma anche luminoso, non soltanto animalesco, semiumano e demonico, ma anche sovrumano, spirituale e ‘divino’ (nel senso che gli antichi davano al termine).” Questo è il motivo per cui il “Mercurio” alchemico-analitico è definito anche duplex, ovvero doppio: “demonio, mostro, animale e insieme rimedio, ‘figlio dei filosofi’, Sapientia Dei e donum Spiritus Sancti.” 
    Nella relazione analitica “Mercurio” prende forme complesse ed emotivamente cariche, come ad esempio nel fenomeno del transfert, che è la proiezione di contenuti inconsci del paziente sull’analista. Il “Mercurio” transferale, in particolare, richiede al terapeuta “infinita pazienza, perseveranza, equanimità, sapere e capacità” perché la sua intensità emotiva è quella di “un frammento di anima primordiale, nel quale nessuna coscienza è ancora intervenuta per portare ordine e differenziazione.” Nel processo d’individuazione, che va in parallelo con l’opus alchemico, il contatto della coscienza dell’Io con Hermes-Mercurio provoca, in prima battuta, l’esperienza della lacerazione psichica (disiunctio), il polo opposto dell’integrazione (coniunctio), che è la mèta dell’opus: “Essere posseduti dall’inconscio significa appunto essere dilacerati in molti e in molte cose, significa una disiunctio. […] Il doloroso conflitto che inizia nella nigredo o tenebrositas [la prima fase dell’analisi] è raffigurato dall’alchimista come separatio o divisio elementorumsolutiocalcinatioincineratio.” 
    La disgregazione della coscienza segna però una prima ed importantissima “trasmutazione” di “Mercurio”, ovvero delle dinamiche inconsce: il paziente passa dall’identificazione con il proprio Io e dalla proiezione dei contenuti inconsci sugli altri, alla percezione della propria Ombra: “Fin quando il paziente ha potuto pensare che il responsabile delle sue difficoltà fosse qualcun altro (il padre o la madre), è riuscito a salvare l’’apparenza della sua unitarietà (putatur unus esse!). Ma dal momento in cui si rende conto di possedere egli stesso un’Ombra, e anzi di celare “nel proprio petto” il nemico, allora ha inizio il conflitto e l’Uno diventa Due”. Si tratta di un passaggio psichico non facile, ma ineludibile per dare avvio al processo di trasformazione psichica che porterà all’individuazione, ovvero, in termini alchemici, alla realizzazione dell’“oro filosofico”, al “compimento” dell’opus (rubedo). 
    Spesso in questa fase il terapeuta diventa l’ultimo, se non l’unico, aggancio che il paziente ha per non cadere preda dell’inconscio e della più completa oscurità psichica (disorientamento, confusione). Inizia quindi la “purificazione” del “Mercurio” interno, verso una percezione di sé, che è ormai diversa da quella precedente: l’Io proiettivo è sostituito da un Io, per così dire “oggettivo”, che Jung indica con il termine “Sé”: “Non più una scelta di opportune finzioni, ma una serie di fatti nudi e crudi, che tutti insieme formano la croce che ognuno deve portare, ovvero il destino che ciascuno incarna. In questa fase i sogni e le immaginazioni attive rendono visibili i primi movimenti consci inconsci che tendono alla futura sintesi della personalità e “la redenzione totale dal dolore di questo mondo” (processo d’individuazione). 
(Le citazioni sono liberamente tratte da C.G. Jung, “La psicologia della traslazione, illustrata con l’ausilio di una serie di immagini alchemiche”, OC16, Pratica della psicoterapia, Boringhieri, Torino 1971).

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lunedì 2 novembre 2020

 Marta Tibaldi

Covid-19: il "convitato di pietra" archetipico 

Nella primavera del 2020, durante la prima fase della pandemia da Covid-19, in ambito psicologico si è parlato spesso del passaggio online delle sedute di psicoterapia. I professionisti hanno rivolto grande attenzione a questa modalità di lavoro, che stava ridisegnando le forme della cura. Malgrado il passaggio online abbia rappresentato per molti un vistoso cambiamento di setting, in linea di massima anche nelle sedute virtuali i pazienti hanno continuato a portare tematiche personali, in modo non diverso da prima. L'eco della pandemia rimaneva sullo sfondo, mentre condivise erano, invece, l'aspettativa e il desiderio di rientrare velocemente alla normalità. Dopo l'estate gli scenari psichici sono cambiati e, con il crescere della cosiddetta seconda ondata, il Covid-19 è sempre più diventato una presenza inquietante, che veicolava ansie, paure e apriva squarci, spesso involontari, sulla dimensione archetipica dell'esistenza.


 Nel Don Giovanni di Mozart il "convitato di pietra" è il commendatore, padre di Donna Anna, ucciso da Don Giovanni dopo un tentativo fallito di seduzione, da parte di questo ultimo, nei confronti della giovane donna. Nell'ultimo atto dell'opera, il commendatore appare a Don Giovanni sotto forma di fantasma della statua di pietra, che è stata eretta in sua memoria. Il commendatore invita Don Giovanni a cena, chiedendogli di riconoscere le proprie colpe e di pentirsi. Don Giovanni rifiuta e per questo precipita nelle fiamme dell'inferno. L'immagine del convitato di pietra dà forma simbolica all'ineludibile necessità, per Don Giovanni, di guardare se stesso e i propri errori a cospetto della morte: temi che lo obbligherebbero ad assumersi la responsabilità dei propri comportamenti, a vivere il senso di colpa, riconoscendo i limiti umani ad facies mortisSquilibrio, arroganza, negazione, mancanza di rispetto, in una parola l'hybris della coscienza dell'Io, insieme all'unilateralità psichica condannano Don Giovanni all'inferno.
In che modo possiamo considerare il Covid-19 un analogo simbolico del "convitato di pietra" di mozartiana memoria? Al pari di come si comporta Don Giovanni, all'inizio della pandemia abbiamo assistito, sia individualmente che collettivamente, a meccanismi di negazione della realtà (l'opposizione di Don Giovanni alla presa di coscienza), quindi a 'fughe emotive' nel momento in cui il pericolo sembrava lontano (Don Giovanni continua a condurre la propria vita, ignorando quanto accaduto), al costellarsi della paura a seguito del rimosso che ritorna (il fantasma del commendatore pone Don Giovanni di fronte alla evidenza della morte). Al pari del "convitato di pietra", il Covid-19 è un fantasma  di morte, che ci pone di fronte alle nostre azioni, ai nostri comportamenti, alle nostre scelte. Quando avviciniamo il Covid-19 con il registro archetipico, riconoscendolo come evento numinoso, più grande e potente di noi, possiamo scegliere - a differenza di Don Giovanni - di ripensare i nostri valori e il nostro modo di stare al mondo, salvandoci. Scrive Umberto Galimberti:

In preda a una nuova solitudine, dovremo fare i conti con una visione più precaria della vita, dove siamo meno immortali. Saremo costretti, infatti, a stare sempre di più con noi stessi e con la nostra famiglia. Finirà l’epoca dell’eccesso, quella degli influencer, perché quando c’è in pericolo la vita, la salute, emergono valori che avevamo rimosso. Potrebbero esserci dei cambiamenti migliorativi: una depurazione dal sovraccarico di superficialità che ha caratterizzato questo secolo e una fortificazione dei legami affettivi. Non credo che saremo più soli, quanto “diversamente soli”. L’umanità ha sempre saputo gestire le difficoltà. Ce lo insegna la storia e i conflitti mondiali che hanno caratterizzato il Novecento. Adesso siamo in una fase di cambiamento epocale. Da circa un secolo, infatti, l’umanità non ha subito cambiamenti significativi e ora si trova ad affrontare qualcosa di epocale. Che prima o poi arrivasse era prevedibile, anche se nessuno poteva immaginare che sarebbe stata un’epidemia a cambiare le nostre vite forse per sempre. (cit. in I sentieri della filosofia - http://www.isentieridella ragione.weebly.com)

Dal punto di vista archetipico, le pandemie, come quella da Covid-19, sono "visite degli dèi", che ci invitano a riflettere su noi stessi, sui nostri comportamenti e sul nostro rapporto con la vita e con la morte, modificando radicalmente, ove necessario, modi di pensare e valori, pena la dannazione psichica: "Oggi si gioca [infatti] una partita di consapevolezza (troppo spesso, di inconsapevolezza) nei confronti delle relazioni che legano il nostro Io alla psiche inconscia, agli altri esseri viventi (umani e non), al mondo e alla vita stessa". (Cfr. M. Tibaldi, "Malattie, epidemie e dèi" - martatibaldi.blogspot.com - 7 agosto 2020).

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