(Foto doew.at)
Non volersi separare.
A proposito di Stefan Zweig e del
film Grand Hotel Budapest
Mai come in questi anni si è parlato tanto di trauma e
innumerevoli sono gli approcci che si pongono come obiettivo quello di
“superare il trauma” (EMDR, Terapia sensomotoria etc.). Non c’è dubbio che le
esperienze traumatiche blocchino il funzionamento psichico ed espongano a
disagi e sintomi: ben vengano dunque le terapie che possano dare sollievo a chi
del trauma è rimasto vittima. Dal punto di vista psicodinamico sappiamo che
nell’esperienza traumatica molti sono gli aspetti scissi e contraddittori
che agiscono in modo autonomo, senza, per così dire, che gli uni sappiano degli
altri. Il non volersi separare è uno di questi.
Attualmente nelle sale romane è in programmazione
il film di Wes Anderson Grand
Hotel Budapest. Si tratta di un film ispirato al romanzo di Stefan Zweig,
Il mondo di ieri (Mondadori,
Milano 1994), una storia che vorrei definire “post-traumatica”, nel quale
l’autore rievoca la vitalità e la bellezza di un mondo ormai scomparso – la Mitteleuropa di fine Ottocento – e la
dolorosissima esperienza della sua fine. Il romanzo giustappone un “prima”
vitale e creativo a un “dopo” decadente e distruttivo, sfociato nel nazismo e
nella seconda guerra mondiale. Zweig non sopravvisse a questo trauma storico e
nel 1942 si suicidò in esilio. Il “prima” e il suo dolore insuperabile furono
più forti del “dopo” e della possibilità di sopravvivere.
Sebbene il film di Anderson a prima vista
possa sembrare - e sia anche - un thriller caleidoscopico, ironico e paradossale,
l'inizio e la fine del film in realtà ci raccontano una storia di trauma: una
ragazza appende una chiave d’albergo sul piedistallo di un busto dedicato a uno
scrittore ormai scomparso, di cui sta leggendo il romanzo. E’ la storia degli
antichi splendori del Grand
Hotel Budapest, dove ora soggiornano
soltanto pochi avventori solitari. Tra questi, il più triste e solo è l’anziano
proprietario dell’albergo, che invita lo scrittore a cena e gli racconta le
avventure di Gustave H., leggendario concièrge del hotel, e del suo giovane lobby boy Zero, che non è altri che lo stesso proprietario
dell’albergo. Molti anni prima Monsieur
Gustave e Zero furono coinvolti innocenti in un omicidio, nel furto di un
dipinto d’inestimabile valore e in una eredità controversa. Intorno a questo
racconto ruota la parte centrale del film.
Nella scena finale, lo scrittore chiede
perplesso all'anziano proprietario perché non abbia venduto l'albergo, visto
che ormai è in disuso, e questi gli risponde che lì è stato felice con la donna
che ha amato e che è morta prematuramente dopo due anni di matrimonio. Seppure la
sua felicità con Agatha sia stata breve, il Grand
Hotel Budapest è stato il
teatro di quell'amore e l'anziano proprietario non se ne vuole separare.
In Lutto
e Malinconia Freud analizza
le due esperienze del lutto e della malinconia e a proposito del
lavoro del lutto scrive: "L'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto
amato non c'è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò
che è connesso con tale oggetto. [...] La normalità è che il rispetto della
realtà prenda il sopravvento. [...] Una volta portato a termine il lavoro del
lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito" (S. Freud, Lutto e melanconia, in Opere,
vol. 8, Boringhieri, Torino 1976, pp. 123-124). Si tratta di un'interpretazione
che pone l'accento sulla necessità di superare l’esperienza traumatica e sul
fatto che non riuscire in questo intento possa diventare indice di patologia
(depressione).
Nel suo approccio alla depressione Jung è
meno patologizzante di Freud. L'attenzione alle dinamiche compensatorie della
psiche conscia e inconscia dà forma a un atteggiamento clinico molto più fluido
e efficace. Jung sostiene, ad esempio, l’importanza di vivere la depressione
fino in fondo, anche se ciò prende la forma di un'apparente regressione: reculer pour mieux sauter significa
per Jung "indietreggiare per saltare meglio", ovvero potere regredire
consapevolmente al fine di recuperare energia psichica e fare un balzo in
avanti. Ciò che rende questa regressione trasformativa è la possibilità di dare
spazio anche al nostro desiderio di non separarci dall'oggetto amato,
assumendo questa esigenza nella coscienza in modo consapevole, come il
proprietario del Grand Hotel
Budapest.
Quando non si riesce ad andare oltre un
legame di attaccamento reciso traumaticamente, per sperare di superare il
trauma abbiamo bisogno di guardare in faccia anche il nostro desiderio di non separarci da ciò che abbiamo
perduto lasciandogli consapevolmente il tempo di trasformarsi. Le terapie che
puntano in modo unilaterale al superamento del trauma rischiano di lasciare in
ombra gli aspetti ambivalenti dell'esperienza traumatica, fallendo l'obiettivo
che perseguono: il trauma può essere pienamente superato se ne vivono anche gli
aspetti contraddittori, muovendosi dinamicamente tra di loro.
Un grande insegnamento nella direzione
della consapevolezza dell'eterna dinamica degli opposti viene dalla filosofia
orientale. L'immagine del Tao e le trasformazioni descritte ne Il Libro dei Mutamenti (R. Wilhelm, I Ching. Il libro dei mutamenti, Adelphi
1995) ci pongono di fronte "alle singole cose fluenti" con uno
sguardo capace di cogliere "l'eterna immutabile legge operante in ogni
mutamento": ogni situazione evolve nel suo opposto, se solo si lascia che
tutto avvenga. Wu wei è un’importante
precetto del Taoismo che riguarda la consapevolezza dell’agire senza sforzo,
nel pieno rispetto e armonia dei processi dinamici. Il terapeuta deve sapere tollerare
anche la volontà del paziente di non separarsi, confidando nell’ “eterna trasformazione
delle cose” (Zuangzi).
Il trauma contiene in sé sia il desiderio
del suo superamento sia quello opposto di non volere recidere il legame con gli
oggetti d’amore perduti. Riconoscere entrambi, dando loro spazio e tempo per
evolvere è un passaggio ineludibile perché l'esperienza traumatica faccia il
suo corso, portandoci oltre il trauma (cfr. M. Tibaldi, Oltre
il cancro. Trasformare creativamente la malattia che temiamo di più,
Moretti & Vitali, Bergamo 2010).
Ogni tentativo di superamento unilaterale
del trauma, anche quello che nasce dalle migliori intenzioni, se non è
bilanciato dalla presa di coscienza della posizione psichica opposta e dalla
sua accettazione, rischia di essere controproducente e di bloccare il processo.
Forzare il trauma senza rispettare anche la volontà della persona traumatizzata
di non separarsi da ciò che è stato perduto
può esasperare il dolore traumatico, rischiando di renderlo davvero
insuperabile.
1 commento:
mi sembra molto interessante la tua riflessione: saper accettare che l'altro non voglia separarsi dal suo oggetto d'amore perduto e, nello stesso tempo, voglia farlo, e senza sentirsi in colpa.e quindi accompagnarlo passo passo, rispettando il suo percorso senza accelerarlo, ciò che lo farebbe incespicare e ... travolgere....
molto bello l'excursus fra punti di vista di studiosi, compreso il tuo!
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