La vita in trasparenza [1]
Tra immagini esterne e immagini interne,
l’impersonalità dell’esistenza
Mi tuffo nei
miei pensieri,
volo sopra
il mondo.
Marc Chagall
Sono piccola, avrò quattro o cinque
anni, è estate e sono con mio fratello in vacanza in una grande casa con il
parco. Siamo all’esterno della casa, mio fratello sta giocando con alcune
formiche, le prende, le mette in una piccola scatola di cartone a cellette - è
la scatola che contiene le palline rosse delle vitamine Minarini, se non
sbaglio - le brucia. Guardo ciò che fa con stupore e distanza: è la mia
percezione della realtà, da quando ho scoperto traumaticamente il mondo. Sono
piccola ma consapevole del mio sguardo in trasparenza: le formiche che stanno
morendo davanti a me muoiono sconosciute; nessuno sa chi sono, nessuno,
probabilmente, avrà memoria di loro; le formiche muoiono in modo impersonale.
Sono consapevole che si può vivere e morire impersonalmente: un livello del
nostro vivere non riguarda nessuno, se non la vita stessa; è come di fronte al
deserto: la natura vive prima di noi e oltre noi.
La vita in trasparenza: l’ho
imparata dal mondo, l’ho ritrovata in Jung. Imparare a guardare noi stessi e il
mondo in modo oggettivo e impersonale, intuendone il mistero: un decentramento
nei nostri confronti, quando riconosciamo la dimensione inconscia della mente,
un decentramento nei confronti del mondo, quando sviluppiamo lo sguardo in
trasparenza.
Scrive Jung: “La differenza tra me e la maggior parte degli altri uomini
è che per me i "muri divisori" sono trasparenti. E' questa la mia
caratteristica. Altri ritengono i muri così spessi, che al di là di quelli non
vedono nulla, e perciò credono che non vi sia nulla. […] Chi non vede nulla non
ha nessuna certezza, e non può pervenire a nessuna conclusione, o non può
fidarsi delle sue conclusioni. […] L'uomo deve sentire che vive in un mondo
che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano
cose che restano inesplicabili, e non solo quelle che accadono nell'ambito di
ciò che ci si attende. L'inatteso e l'inaudito appartengono a questo mondo”
(RSR, 415s).
Le immagini esterne e le
immagini interne, l’imepersonalità dell’esistenza, la trasparenza del mondo e
il mistero: ecco il mio ascolto di Jung, oggi.
***
Nel film Videocracy - Basta
apparire il regista italo-svedese Erik Gandini descrive, con limpida
capacità narrativa, il processo che in Italia, a partire dagli anni Settanta, ha
reso l’apparire televisivo misura dell’identità personale, del valore sociale,
dell’esistenza.
Nella cultura dell’apparenza,
l’identità individuale e collettiva si costruiscono infatti intorno alla
visibilità televisiva della nostra immagine, al nostro essere riconosciuti
dallo sguardo del telespettatore quali personaggi del piccolo schermo,
qualunque sia il ruolo impersonato. A loro volta, i nuovi eroi televisivi
riconoscono la propria esistenza e definiscono la propria identità a partire da
quel medesimo sguardo, che è ben diverso da quello di cui si fa quotidiana
esperienza quando si è televisivamente invisibili e dunque mediaticamente
inesistenti.
L’inesistenza e l’invisibilità dei
non-personaggi televisivi investono in modo drammatico anche la loro dimensione
corporea, che diventa inconsistente fino alla vera e propria
smaterializzazione. Si pensi, ad esempio, alla bassissima percezione che le
persone hanno della presenza altrui in situazioni sociali quali luoghi chiusi
(autobus, negozi, cinema, centri commerciali etc.) ovvero aperti (strade,
traffico cittadino etc.), a meno che la presenza degli altri non diventi fonte
di frustrazione o di fastidio: essa stimola allora una risposta emotiva, di
solito di natura aggressiva, che, tradotta in parole, potrebbe suonare così:
“mi intralci ... mi dai fastidio ... levati di mezzo!”. Mi viene in mente, a
questo proposito, l’efficacissima espressione di una giovane paziente, che si
rivolgeva alle persone a lei moleste, dicendo: “Sopprimiti!”.
A proposito della natura cordiale o
aggressiva del nostro modo di stare in relazione con gli altri, una vignetta di
Ellekappa pubblicata il 22 settembre 2009 sul giornale La Repubblica ne
è un divertente esempio: a commento delle divergenze di opinione intercorse tra
Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e la negazione, da parte del primo, di
qualsiasi dissidio con l’altro, la vignetta ne sintetizzava così la storia:
“Due uomini parlano tra di loro della
disputa Fini - Berlusconi. Il primo rivolto al secondo dice: 'Al termine del
faccia a faccia con Fini, pollice alzato di Berlusconi'; il secondo risponde al
primo: 'O forse era il medio?'“.
Per quanto riguarda il contratto
sociale che regola i rapporti interpersonali, un tempo le norme di buona
educazione prescrivevano di mantenere sempre una distanza di rispetto tra sé e
gli altri. Nel caso essa fosse venuta meno per qualsiasi motivo, il bon ton
esortava a scusarsi per l’indebita invasione dello spazio altrui, ripristinando
così la giusta misura relazionale.
In un’epoca come la nostra, nella
quale ben poco si sa e si ricorda delle norme di buona educazione, è
interessante notare come il concetto di distanza di rispetto sia ormai sparito
dal bon ton sociale, salvo ritrovarlo, sotto altra forma, in ambiti
lontanissimi come, ad esempio, i sempre più richiesti e frequentati corsi di
autodifesa personale. Una delle prime regole che viene insegnata è quella di
mantenere o di ripristinare sempre la distanza di sicurezza tra noi e gli
altri; una maggiore vicinanza è consentita soltanto a una persona amica o a un partner
amoroso. Mi verrebbe da dire che le regole che un tempo definivano i rapporti
umani 'in tempo di pace' sembrano ora definire soprattutto i rapporti umani 'in
tempo di guerra'.
Un’altra norma di buona educazione,
ormai totalmente scomparsa, prescriveva di non fissare le persone, di non
guardare nessuno con insistenza; se poi qualcuno davanti a noi fosse incorso in
qualche problema imbarazzante come inciampare, scivolare etc., si doveva
offrire il proprio aiuto al malcapitato senza sottolineare in alcun modo
l’accaduto e, soprattutto, senza ridere! Anche questa norma rientrava tra quelle
che regolavano i rapporti sociali, un codice di rispetto cui ci si aspettava
che più o meno tutti si attenessero – e chi non lo faceva si qualificava da
solo come un maleducato, una persona socialmente incompetente.
Un pallido ricordo, probabilmente
del tutto inconsapevole, della giusta distanza sociale si ritrova oggi nell’uso
della “linea gialla”, ovvero della “distanza di cortesia” richiesta nei luoghi
pubblici: una linea di rispetto dello spazio privato altrui che demarca,
appunto, il limite del comportamento cortese rispetto a quello scortese.
Ma che cosa è la cortesia? Il Vocabolario della lingua italiana spiega
che la cortesia è un “complesso di qualità, tra cui rispetto verso gli altri,
benevolenza verso gli inferiori, liberalità, piacevolezza di conversazione,
disdegno d’ogni viltà, difesa degli oppressi e della donna, che,
nell’educazione cavalleresca del medioevo, costituivano una caratteristica
dell’uomo di corte.”
Un concetto analogo a quello di
cortesia è quello di garbo: essere garbati, ovvero agire con garbo, significa
mettere in atto un comportamento caratterizzato da “leggiadria, grazia, bella
maniera nei movimenti, nel contegno e soprattutto nel trattare con le persone,
quindi anche cortesia, compitezza”.
Nell’orizzonte televisivo norme di
comportamento di questo genere hanno subìto una netta distorsione, e
decisamente in peggio. Per esempio, da alcuni anni tra i registi televisivi è
invalso l’incivilissimo uso di indulgere con la telecamera sui particolari
fisici e sui comportamenti non-verbali dell’ospite di turno. La telecamera si
sofferma e fissa il malcapitato, obbligandolo al controllo dei segnali del
proprio corpo al limite dell’immobilità.
Ricordo di avere notato, in un
dibattito televisivo nell’ottobre 2009 – si trattava della trasmissione 8 e
mezzo condotta dalla giornalista Lilli Gruber – come l’allora segretario
del Partito democratico Dario Franceschini, ospite in studio, fosse stato più
volte ripreso dal regista mentre girava tra le mani il taccuino della
trasmissione. Non appena Franceschini si rese conto che il regista soffermava a
lungo l’inquadratura sulle sue mani, posò il taccuino e da quel momento in poi
bloccò ogni proprio segnale corporeo. Scena analoga in una trasmissione di
qualche tempo dopo, ospite questa volta Massimo D’Alema, che fin da subito mise
in atto un controllo quasi granitico dei messaggi non-verbali del proprio
corpo.
Se pensiamo che nel regno animale la
reazione di freezing (congelamento dell’azione) è una forma di difesa
messa in atto dagli animali in situazioni di pericolo, l’annullare ogni segnale
corporeo da parte di chi è inquadrato televisivamente sembrerebbe esprimere, da
questo vertice di osservazione, una risposta istintiva alla dimensione di
pericolo che il corpo percepisce in relazione all’uso intrusivo dello sguardo
televisivo.
Questo
modo di descrivere e di costruire l’immagine televisiva agli occhi del
telespettatore rappresenta senz’altro un superamento della giusta distanza -
quindi, in prima battuta, una maleducazione - e, in secondo luogo, un’indebita
invasione dello spazio privato, dunque, qualcosa di peggio della maleducazione.
Con un termine forte potrei dire che vi si può ravvisare una forma di abuso del
regista nei confronti dell’ospite; soltanto una delle due parti in causa, il
regista, ha infatti il potere di soffermare lo sguardo televisivo sull’ospite,
di fissarlo, mentre quest’ultimo ha un unico modo di proteggersi: oscurare le
informazioni che quello sguardo evidenzia senza reciprocità e accordo tra le
parti. Lo sguardo del regista si può poi considerare particolarmente abusante
se si pensa che non si tratta di uno sguardo privato, in un rapporto uno-a-uno,
ma che esso è “uno, nessuno e centomila” perché si amplia fino a inglobare in
sé lo sguardo dei milioni di telespettatori. Questi ultimi sono autorizzati
così a spiare il comportamento non-verbale dell’ospite, utilizzando in modo
vicario lo sguardo del regista.
Ma, come dice il proverbio, “non c'è
rosa senza spine”: anche lo sguardo televisivo che regala identità, visibilità
ed esistenza mediatica contiene in sé la propria ombra, i propri aspetti
negativi. Più si diventa televisivamente visibili, più si è esposti, ad
esempio, alla paura di perdere questa visibilità e il riconoscimento sociale
che essa porta con sé.
A proposito del timore di scomparire
e dunque di non esistere più, vorrei raccontare un fatto di cui sono stata
testimone diretta: è estate, il giornalista televisivo Tiberio Timperi entra in
un bar. Indossa una maglietta sulla quale è stampato a grandi lettere: “Ah! ...
è Tiberio Timperi!”. L’effetto su chi guarda è straniante: Timperi si fa
riconoscere a forza, nel caso qualcuno non sappia o
non ricordi chi sia.
In termini psicoanalitici si
potrebbe ipotizzare che da parte del giornalista ci sia stata la messa in atto
(acting out) di una paura inconscia: una maglietta di self-recognition
per evitare il pericolo del non-riconoscimento? Una maglietta apotropaica nei
confronti del timore di non essere riconosciuto? Insomma, tradotto in parole:
“mi devi riconoscere, che tu mi lo voglia o meno”?
La televisione regala identità, ma
genera anche il timore di sparire; a meno che essa non si appropri della
propria stessa Ombra con ambigue operazioni ripescaggio mediatico, come nel
programma Ricominciare, condotto da Alda D’Eusanio. A suo tempo il
portale Rai pubblicizzava il format in questo modo: “Un grande viaggio
nella memoria popolare, storie intense di personaggi famosi e gente comune che
hanno lasciato una traccia indelebile nell’immaginario collettivo, persone
arrivate alla ribalta del successo o della cronaca nera e poi, improvvisamente,
dimenticate”.
In realtà, si trattava di un
programma psicologicamente discutibile, seppure di un certo successo, il cui
obiettivo consisteva nel ridare momentanea visibilità a coloro che erano
tornati ad essere invisibili, con effetti decisamente ambigui sul
telespettatore. Programmi di questo genere stimolano infatti nel pubblico una
sorta di voyeurismo mediatico, al limite del sadismo, nei confronti di
chi è tornato a essere un/una signore/a nessuno; sembra quasi di potere di
sentire commenti del genere: “guarda come è diventato/a X. Y. , che fine ha
fatto ... come si è ridotto ... etc.!”
In termini di qualità della vita, la
visibilità televisiva costa a chi sia diventato un personaggio mediatico anche
un altro prezzo altissimo: quello della libertà. Essere visibili, essere
riconosciuti sempre e comunque, significa infatti non passare più inosservati, essere
prigionieri e ostaggio della propria stessa immagine.
Della condanna alla perdita della
libertà ne è doloroso testimone lo scrittore Roberto Saviano che, da quando ha
ottenuto successo, visibilità e fama con il libro Gomorra, è obbligato a
vivere nascosto e sotto scorta per sfuggire alla vendetta dei camorristi della
famiglia dei Casalesi; anche se Saviano ha saputo trasformare la propria
visibilità in arma mediatica di lotta alla violenza (seppure con il costante
rischio della sovraesposizione).
La civiltà dell’apparire contiene in
sé anche un altro gravissimo limite. Essa è artefice di una realtà nella quale,
come bene sottolinea Gandini nel suo film, l’80% della popolazione si informa
su ciò che accade nel mondo unicamente attraverso la televisione: dunque una
civiltà nella quale la stragrande maggioranza della popolazione non accede alla
carta stampata o ha scarsa familiarità
con essa. Come è noto, una civiltà che ignori il valore della scrittura, che
non abbia consuetudine con la parola scritta, che non sia in grado di fare quel
salto di consapevolezza che la scrittura comporta, si priva dello strumento
critico della lettura.
***
Proviamo ora a raccontare la
medesima storia della visibilità/invisibilità, quella dello sguardo che crea
identità, dà esistenza e consistenza fisica, utilizzando il registro
psicologico.
Al momento attuale la nostra cultura
sembra immersa in quello che nella psicologia evolutiva prende il nome - non a
caso! - di “stadio dello sguardo”: la primissima fase della vita neonatale
durante la quale, attraverso lo sguardo della madre e l’esperienza di contatto
fisico con lei, il neonato sperimenta le prime forme relazionali tra sé e il
non-sé, una traccia che si iscriverà nel corpo-mente dell’infante come
prototipo delle successive esperienze interpersonali. Dal punto di vista
psicologico, si potrebbe dire che la televisione sembra svolgere oggi il ruolo
di “mamma sostitutiva” nei confronti dei bisogni più infantili dei
telespettatori, il ruolo di figura di attaccamento primario, colei/colui che ci
riconosce e che ci fa esistere: figura essenziale, della quale i tanti
adulti-infanti che puntano tutto sulla visibilità televisiva cercano
disperatamente lo sguardo, pena l’impossibilità di percepirsi come esistenti.
Peccato, verrebbe da aggiungere, che
in un sano sviluppo psichico la fase dello sguardo dovrebbe essere superata – e
di fatto lo è - piuttosto velocemente, per dirigersi verso orizzonti psichici
meno fusionali e più complessi. Altrimenti lo sviluppo della personalità rimane
fissato alle fasi pre-orali dello psichismo, ottimo terreno di coltura delle
forme psicopatologiche più severe (come è noto, nella fase pre-orale nascono e
si sviluppano le modalità più patologiche del
funzionamento psichico).
Dunque la società dell’apparire,
dell’essere riconosciuti televisivamente, se osservata dal vertice psicologico,
ci porta direttamente nella nostra primissima infanzia, là dove lo sguardo
materno che riconosce, lo sguardo che sostiene l’infante narcisisticamente, lo
sguardo che fa esistere, forse non ha funzionato al meglio: come direbbe
Felicity De Zulueta, si tratta forse di un bisogno di attaccamento andato a
male?
La necessità parossistica di
riconoscimento richiesta alla televisione, quale derivato di quella figura di
attaccamento, sembrerebbe testimoniare a favore di bisogni infantili irrisolti,
rimessi in scena da coloro che più o meno consapevolmente hanno qualche conto
in sospeso con la propria fase dello sguardo.
Non è forse vero che il bambino
piccolo che non sia stato visto né riconosciuto dai propri caregivers,
pur di sfuggire alla disperante esperienza della propria non-esistenza,
preferisca diventare “cattivo”, mettendo in atto comportamenti disfunzionali? A
questo proposito mi viene in mente la storia di una paziente, molto sofferente
per la mancanza di riconoscimento da parte dei genitori, che da piccola decise
di urinare sul pianerottolo della propria casa nella speranza che i genitori si
accorgessero di lei e del suo disagio. In realtà, il suo gesto non ebbe alcun
effetto, confermando così i disperati vissuti di invisibilità e di inesistenza
della bambina. Nella vita di quella bambina e della giovane donna che è
diventata in seguito, la necessità di essere riconosciuta è rimasto un bisogno
senza risposta.
Se mi sono soffermata su questi
aspetti della cultura dello sguardo, se ho voluto esplicitare alcune delle zone
d’ombra, delle paure, delle violenze e delle ambiguità che la caratterizzano,
l’ho fatto per rendere evidente quanto attraverso la televisione sia
privilegiato soprattutto il rapporto della coscienza con le immagini esterne:
un rapporto che la psicologia junghiana definirebbe di tipo estroverso,
intendendo con ciò “il volgersi della libido verso l’esterno”. Per Jung
infatti l’estroversione è: “[...] un movimento positivo dell’interesse
soggettivo verso l’oggetto. Colui che si trova in uno stato di estroversione
pensa, sente e agisce in relazione all’oggetto e ciò in una forma diretta e
chiaramente percepibile all’esterno, così che non può sussistere alcun dubbio
sul suo atteggiamento positivo nei riguardi dell’oggetto. L’estroversione è in
un certo qual modo un trasferimento dell’interesse dal soggetto verso
l’esterno, all’oggetto. [...] Nello stato di estroversione esiste una forte
dipendenza, anche se non di carattere esclusivo, dall’oggetto.[...] Quando lo
stato di estroversione è abituale, abbiamo il tipo estroverso” (VI,
438).
Di segno opposto è invece
l’atteggiamento introverso, quello che nel quale il soggetto privilegia il
rapporto con le immagini interne: “[Nell’introversione] l’interesse non si
muove verso l’oggetto, ma ripiega da esso sul soggetto. Chi è atteggiato nel
senso dell’introversione pensa, sente e agisce in maniera tale da lasciare
intendere chiaramente che la sua determinante principale è il soggetto, mentre
all’oggetto compete tutt’al più un valore secondario.[...] Quando
l’introversione è abituale, si parla di tipo introverso” (VI, 466).
Ma che cosa sono le immagini
interne? Da sempre gli psicologi del profondo, in generale, e gli psicologi
analisti junghiani, in particolare, hanno rivolto la propria attenzione a
questo genere di immagini, al ricchissimo mondo che la psiche inconscia produce
e mette in scena senza sosta sul palcoscenico della mente. Spesso di questo
mondo se ne ignora (o se ne svaluta) l’esistenza e la portata, a meno che le
immagini interne non si impongano alla coscienza in modo del tutto autonomo,
come avviene negli incubi, nelle ossessioni, nelle manie etc., ovvero in forme
più piacevoli, come, ad esempio, nella passione amorosa, nell’intuizione
artistica, nella creatività etc. Ancora oggi capita che, malgrado i fiumi di
letteratura psicoanalitica e le più avanzate evidenze neuroscientifiche, la
viva realtà del mondo interno venga messa in dubbio: eppure le immagini
profonde svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione e nel mantenimento
dell’equilibrio psicofisico personale e collettivo, nella realizzazione del sé
e di Sé, della costruzione della personalità totale.
A proposito della realtà delle
immagini interne, vorrei raccontare un fatto.
Nel settembre del 2009, durante la
presentazione di un libro che aveva come oggetto il racconto di alcune
esperienze deliranti dell’autrice, tra il pubblico ci fu chi chiese, in
perfetta buonafede, se l’inconscio esistesse davvero e che cosa fosse un
delirio.
Oggi nessuno oserebbe più mettere in
dubbio l’esistenza dell’inconscio né tanto meno la fondamentale unitarietà
della mente e del corpo: Allan Schore sostiene, ad esempio, che il sistema
interno all'emisfero destro rappresenterebbe il substrato biologico
dell'inconscio dinamico di Freud mentre
la nuova unità di osservazione è ormai da considerare a tutti gli effetti
quella del 'cervello-mente-corpo'.
Dal canto suo, uno dei presentatori
rispose che il delirio rappresentava “una maglia aperta sull’infinito”, un modo
per superare i rigidi confini delle abituali concettualizzazioni filosofiche.
Se, da un certo punto di vista, quest’ultima affermazione può essere vera – non
c’è dubbio che il delirio renda visibile l’autonomia della psiche inconscia e
dunque sveli ciò che si situa oltre i (troppo rigidi o lassi) confini della
coscienza - non si può negare che nel delirio il superamento della soglia
cosciente avvenga in modo molto drammatico e pericoloso per l’Io, esponendo la
personalità al concreto rischio di un non-ritorno psichico, ovvero di una
psicosi.
Sicuramente per superare gli schemi
abituali della coscienza, in una forma che sia evolutiva e creativa per la
personalità e non regressiva e distruttiva come nel delirio, esistono altre
vie, meno traumatiche e rischiose: nella psicologia junghiana una di queste è
rappresentata senz’altro dal metodo dell’immaginazione attiva.
A
proposito della differenza che intercorre tra un’esperienza psichica
distruttiva e una creativa, Jung scrive: “Il processo creativo, per quanto
possiamo seguirlo, consiste in un’animazione inconscia dell’archetipo, nel suo
sviluppo e nella sua formazione fino alla realizzazione dell’opera compiuta. Il
dare forma all’immagine primordiale è in certo modo tradurla nel linguaggio
presente, ed è per mezzo di questa traduzione che ognuno può ritrovare
l’accesso alle fonti più profonde della vita, accesso che fino a quel momento
gli era stato interdetto. In questo sta l’importanza sociale dell’arte: essa
lavora continuamente all’educazione dello spirito di ogni epoca, facendo
affiorare le forme che più gli difettano. […] Colui che parla con immagini
primordiali è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al
tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di
caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il proprio destino
personale a destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle
forze soccorritrici che sempre hanno reso possibile all’umanità di sfuggire ad
ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe.” (X*, 353)
Ciò
che differenzia l’esperienza delirante da quella creativa è dunque la capacità
del singolo di tradurre le immagini primordiali nel linguaggio presente.
Sebbene il potere inconscio caratterizzi le produzioni sia distruttive che
creative, soltanto nel secondo caso la coscienza è capace di dare al materiale
archetipico una forma simbolica riconoscibile e valida per tutti, utilizzando
uno strumento espressivo di altissima qualità formale quale, ad esempio, la
scrittura. In questo senso, l’opera d’arte, “lavora continuamente
all’educazione dello spirito di ogni epoca” e rappresenta, per il singolo e per
la collettività, un processo di autoregolazione spirituale: “La vita è un
criterio della verità dello spirito. Uno spirito che trascini l’uomo fuori
delle sue possibilità vitali e cerchi solo l’adempimento di se stesso, è uno
spirito erroneo, non senza colpa dell’uomo che ha in suo potere di concedersi o
meno. Vita e spirito sono due potenze o due necessità, tra cui l’uomo è posto.
Lo spirito dà alla vita umana un senso e la possibilità di esplicarsi. Ma la
vita è indispensabile allo spirito, perché la sua verità è nulla, se essa non
può vivere.”(VIII, 362).
Di
fronte all’impersonalità dell’esistenza e alla vita in
trasparenza, mi sento di dire oggi, prendendo a prestito le parole di Jung dal
suo Libro rosso: “Il mistero mi mostrò per immagini ciò che avrei poi
dovuto vivere. Non possedevo alcuno dei benefici che esso mi mostrò, ma dovevo
ancora acquisirli tutti” (p. 256).
***
(Le citazioni tratte
dalle Opere di Jung, pubblicate in
Italia da Bollati Boringhieri, sono seguite tra parentesi dall’indicazione del
volume in numero romano e della pagina in numero arabo. Le citazioni da Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung,
a cura di A. Jaffé, sono seguite fra parentesi dalla sigla RSR e dal numero di
pagina).
[1] Parte di questo articolo è stata pubblicata come Premessa al
libro Marta Tibaldi, Pratica dell’immaginazione attiva. Dialogare con l’inconscio e vivere meglio, La Lepre, Roma 2011, pp. 9-21.
Articolo apparso sulla rivista di Psicologia analitica In ascolto di Jung (a cura di F. Donfrancesco) Anima, 2010/2011, Moretti & Vitali, Bergamo 2011, pp. 123-133
Marta Tibaldi, Profilo professionale e pubblicazioni
Articolo apparso sulla rivista di Psicologia analitica In ascolto di Jung (a cura di F. Donfrancesco) Anima, 2010/2011, Moretti & Vitali, Bergamo 2011, pp. 123-133
Marta Tibaldi, Profilo professionale e pubblicazioni
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