giovedì 23 gennaio 2014

La vita in trasparenza. Tra immagini esterne e immagini interne, l'impersonalità dell'esistenza - di Marta Tibaldi




Marta Tibaldi
La vita in trasparenza [1]
Tra immagini esterne e immagini interne, l’impersonalità dell’esistenza

Mi tuffo nei miei pensieri,
volo sopra il mondo.
Marc Chagall

            Sono piccola, avrò quattro o cinque anni, è estate e sono con mio fratello in vacanza in una grande casa con il parco. Siamo all’esterno della casa, mio fratello sta giocando con alcune formiche, le prende, le mette in una piccola scatola di cartone a cellette - è la scatola che contiene le palline rosse delle vitamine Minarini, se non sbaglio - le brucia. Guardo ciò che fa con stupore e distanza: è la mia percezione della realtà, da quando ho scoperto traumaticamente il mondo. Sono piccola ma consapevole del mio sguardo in trasparenza: le formiche che stanno morendo davanti a me muoiono sconosciute; nessuno sa chi sono, nessuno, probabilmente, avrà memoria di loro; le formiche muoiono in modo impersonale. Sono consapevole che si può vivere e morire impersonalmente: un livello del nostro vivere non riguarda nessuno, se non la vita stessa; è come di fronte al deserto: la natura vive prima di noi e oltre noi.
            La vita in trasparenza: l’ho imparata dal mondo, l’ho ritrovata in Jung. Imparare a guardare noi stessi e il mondo in modo oggettivo e impersonale, intuendone il mistero: un decentramento nei nostri confronti, quando riconosciamo la dimensione inconscia della mente, un decentramento nei confronti del mondo, quando sviluppiamo lo sguardo in trasparenza.
            Scrive Jung: “La differenza tra me e la maggior parte degli altri uomini è che per me i "muri divisori" sono trasparenti. E' questa la mia caratteristica. Altri ritengono i muri così spessi, che al di là di quelli non vedono nulla, e perciò credono che non vi sia nulla. […] Chi non vede nulla non ha nessuna certezza, e non può pervenire a nessuna conclusione, o non può fidarsi delle sue conclusioni. […] L'uomo deve sentire che vive in un mondo che, per certi aspetti, è misterioso; che in esso avvengono e si sperimentano cose che restano inesplicabili, e non solo quelle che accadono nell'ambito di ciò che ci si attende. L'inatteso e l'inaudito appartengono a questo mondo” (RSR, 415s).
            Le immagini esterne e le immagini interne, l’imepersonalità dell’esistenza, la trasparenza del mondo e il mistero: ecco il mio ascolto di Jung, oggi.
***
            Nel film Videocracy - Basta apparire il regista italo-svedese Erik Gandini descrive, con limpida capacità narrativa, il processo che in Italia, a partire dagli anni Settanta, ha reso l’apparire televisivo misura dell’identità personale, del valore sociale, dell’esistenza.
            Nella cultura dell’apparenza, l’identità individuale e collettiva si costruiscono infatti intorno alla visibilità televisiva della nostra immagine, al nostro essere riconosciuti dallo sguardo del telespettatore quali personaggi del piccolo schermo, qualunque sia il ruolo impersonato. A loro volta, i nuovi eroi televisivi riconoscono la propria esistenza e definiscono la propria identità a partire da quel medesimo sguardo, che è ben diverso da quello di cui si fa quotidiana esperienza quando si è televisivamente invisibili e dunque mediaticamente inesistenti.
            L’inesistenza e l’invisibilità dei non-personaggi televisivi investono in modo drammatico anche la loro dimensione corporea, che diventa inconsistente fino alla vera e propria smaterializzazione. Si pensi, ad esempio, alla bassissima percezione che le persone hanno della presenza altrui in situazioni sociali quali luoghi chiusi (autobus, negozi, cinema, centri commerciali etc.) ovvero aperti (strade, traffico cittadino etc.), a meno che la presenza degli altri non diventi fonte di frustrazione o di fastidio: essa stimola allora una risposta emotiva, di solito di natura aggressiva, che, tradotta in parole, potrebbe suonare così: “mi intralci ... mi dai fastidio ... levati di mezzo!”. Mi viene in mente, a questo proposito, l’efficacissima espressione di una giovane paziente, che si rivolgeva alle persone a lei moleste, dicendo: “Sopprimiti!”.
            A proposito della natura cordiale o aggressiva del nostro modo di stare in relazione con gli altri, una vignetta di Ellekappa pubblicata il 22 settembre 2009 sul giornale La Repubblica ne è un divertente esempio: a commento delle divergenze di opinione intercorse tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini e la negazione, da parte del primo, di qualsiasi dissidio con l’altro, la vignetta ne sintetizzava così la storia: “Due uomini parlano tra di loro della disputa Fini - Berlusconi. Il primo rivolto al secondo dice: 'Al termine del faccia a faccia con Fini, pollice alzato di Berlusconi'; il secondo risponde al primo: 'O forse era il medio?'“.
            Per quanto riguarda il contratto sociale che regola i rapporti interpersonali, un tempo le norme di buona educazione prescrivevano di mantenere sempre una distanza di rispetto tra sé e gli altri. Nel caso essa fosse venuta meno per qualsiasi motivo, il bon ton esortava a scusarsi per l’indebita invasione dello spazio altrui, ripristinando così la giusta misura relazionale.
            In un’epoca come la nostra, nella quale ben poco si sa e si ricorda delle norme di buona educazione, è interessante notare come il concetto di distanza di rispetto sia ormai sparito dal bon ton sociale, salvo ritrovarlo, sotto altra forma, in ambiti lontanissimi come, ad esempio, i sempre più richiesti e frequentati corsi di autodifesa personale. Una delle prime regole che viene insegnata è quella di mantenere o di ripristinare sempre la distanza di sicurezza tra noi e gli altri; una maggiore vicinanza è consentita soltanto a una persona amica o a un partner amoroso. Mi verrebbe da dire che le regole che un tempo definivano i rapporti umani 'in tempo di pace' sembrano ora definire soprattutto i rapporti umani 'in tempo di guerra'.
            Un’altra norma di buona educazione, ormai totalmente scomparsa, prescriveva di non fissare le persone, di non guardare nessuno con insistenza; se poi qualcuno davanti a noi fosse incorso in qualche problema imbarazzante come inciampare, scivolare etc., si doveva offrire il proprio aiuto al malcapitato senza sottolineare in alcun modo l’accaduto e, soprattutto, senza ridere! Anche questa norma rientrava tra quelle che regolavano i rapporti sociali, un codice di rispetto cui ci si aspettava che più o meno tutti si attenessero – e chi non lo faceva si qualificava da solo come un maleducato, una persona socialmente incompetente.
            Un pallido ricordo, probabilmente del tutto inconsapevole, della giusta distanza sociale si ritrova oggi nell’uso della “linea gialla”, ovvero della “distanza di cortesia” richiesta nei luoghi pubblici: una linea di rispetto dello spazio privato altrui che demarca, appunto, il limite del comportamento cortese rispetto a quello scortese.
            Ma che cosa è la cortesia? Il Vocabolario della lingua italiana spiega che la cortesia è un “complesso di qualità, tra cui rispetto verso gli altri, benevolenza verso gli inferiori, liberalità, piacevolezza di conversazione, disdegno d’ogni viltà, difesa degli oppressi e della donna, che, nell’educazione cavalleresca del medioevo, costituivano una caratteristica dell’uomo di corte.”
            Un concetto analogo a quello di cortesia è quello di garbo: essere garbati, ovvero agire con garbo, significa mettere in atto un comportamento caratterizzato da “leggiadria, grazia, bella maniera nei movimenti, nel contegno e soprattutto nel trattare con le persone, quindi anche cortesia, compitezza”.
            Nell’orizzonte televisivo norme di comportamento di questo genere hanno subìto una netta distorsione, e decisamente in peggio. Per esempio, da alcuni anni tra i registi televisivi è invalso l’incivilissimo uso di indulgere con la telecamera sui particolari fisici e sui comportamenti non-verbali dell’ospite di turno. La telecamera si sofferma e fissa il malcapitato, obbligandolo al controllo dei segnali del proprio corpo al limite dell’immobilità.
            Ricordo di avere notato, in un dibattito televisivo nell’ottobre 2009 – si trattava della trasmissione 8 e mezzo condotta dalla giornalista Lilli Gruber – come l’allora segretario del Partito democratico Dario Franceschini, ospite in studio, fosse stato più volte ripreso dal regista mentre girava tra le mani il taccuino della trasmissione. Non appena Franceschini si rese conto che il regista soffermava a lungo l’inquadratura sulle sue mani, posò il taccuino e da quel momento in poi bloccò ogni proprio segnale corporeo. Scena analoga in una trasmissione di qualche tempo dopo, ospite questa volta Massimo D’Alema, che fin da subito mise in atto un controllo quasi granitico dei messaggi non-verbali del proprio corpo.
            Se pensiamo che nel regno animale la reazione di freezing (congelamento dell’azione) è una forma di difesa messa in atto dagli animali in situazioni di pericolo, l’annullare ogni segnale corporeo da parte di chi è inquadrato televisivamente sembrerebbe esprimere, da questo vertice di osservazione, una risposta istintiva alla dimensione di pericolo che il corpo percepisce in relazione all’uso intrusivo dello sguardo televisivo.
            Questo modo di descrivere e di costruire l’immagine televisiva agli occhi del telespettatore rappresenta senz’altro un superamento della giusta distanza - quindi, in prima battuta, una maleducazione - e, in secondo luogo, un’indebita invasione dello spazio privato, dunque, qualcosa di peggio della maleducazione. Con un termine forte potrei dire che vi si può ravvisare una forma di abuso del regista nei confronti dell’ospite; soltanto una delle due parti in causa, il regista, ha infatti il potere di soffermare lo sguardo televisivo sull’ospite, di fissarlo, mentre quest’ultimo ha un unico modo di proteggersi: oscurare le informazioni che quello sguardo evidenzia senza reciprocità e accordo tra le parti. Lo sguardo del regista si può poi considerare particolarmente abusante se si pensa che non si tratta di uno sguardo privato, in un rapporto uno-a-uno, ma che esso è “uno, nessuno e centomila” perché si amplia fino a inglobare in sé lo sguardo dei milioni di telespettatori. Questi ultimi sono autorizzati così a spiare il comportamento non-verbale dell’ospite, utilizzando in modo vicario lo sguardo del regista.
            Ma, come dice il proverbio, “non c'è rosa senza spine”: anche lo sguardo televisivo che regala identità, visibilità ed esistenza mediatica contiene in sé la propria ombra, i propri aspetti negativi. Più si diventa televisivamente visibili, più si è esposti, ad esempio, alla paura di perdere questa visibilità e il riconoscimento sociale che essa porta con sé.
            A proposito del timore di scomparire e dunque di non esistere più, vorrei raccontare un fatto di cui sono stata testimone diretta: è estate, il giornalista televisivo Tiberio Timperi entra in un bar. Indossa una maglietta sulla quale è stampato a grandi lettere: “Ah! ... è Tiberio Timperi!”. L’effetto su chi guarda è straniante: Timperi si fa riconoscere a forza, nel caso qualcuno non sappia o non ricordi chi sia.
            In termini psicoanalitici si potrebbe ipotizzare che da parte del giornalista ci sia stata la messa in atto (acting out) di una paura inconscia: una maglietta di self-recognition per evitare il pericolo del non-riconoscimento? Una maglietta apotropaica nei confronti del timore di non essere riconosciuto? Insomma, tradotto in parole: “mi devi riconoscere, che tu mi lo voglia o meno”?
            La televisione regala identità, ma genera anche il timore di sparire; a meno che essa non si appropri della propria stessa Ombra con ambigue operazioni ripescaggio mediatico, come nel programma Ricominciare, condotto da Alda D’Eusanio. A suo tempo il portale Rai pubblicizzava il format in questo modo: “Un grande viaggio nella memoria popolare, storie intense di personaggi famosi e gente comune che hanno lasciato una traccia indelebile nell’immaginario collettivo, persone arrivate alla ribalta del successo o della cronaca nera e poi, improvvisamente, dimenticate.
            In realtà, si trattava di un programma psicologicamente discutibile, seppure di un certo successo, il cui obiettivo consisteva nel ridare momentanea visibilità a coloro che erano tornati ad essere invisibili, con effetti decisamente ambigui sul telespettatore. Programmi di questo genere stimolano infatti nel pubblico una sorta di voyeurismo mediatico, al limite del sadismo, nei confronti di chi è tornato a essere un/una signore/a nessuno; sembra quasi di potere di sentire commenti del genere: “guarda come è diventato/a X. Y. , che fine ha fatto ... come si è ridotto ... etc.!”
            In termini di qualità della vita, la visibilità televisiva costa a chi sia diventato un personaggio mediatico anche un altro prezzo altissimo: quello della libertà. Essere visibili, essere riconosciuti sempre e comunque, significa infatti non passare più inosservati, essere prigionieri e ostaggio della propria stessa immagine.
            Della condanna alla perdita della libertà ne è doloroso testimone lo scrittore Roberto Saviano che, da quando ha ottenuto successo, visibilità e fama con il libro Gomorra, è obbligato a vivere nascosto e sotto scorta per sfuggire alla vendetta dei camorristi della famiglia dei Casalesi; anche se Saviano ha saputo trasformare la propria visibilità in arma mediatica di lotta alla violenza (seppure con il costante rischio della sovraesposizione).
            La civiltà dell’apparire contiene in sé anche un altro gravissimo limite. Essa è artefice di una realtà nella quale, come bene sottolinea Gandini nel suo film, l’80% della popolazione si informa su ciò che accade nel mondo unicamente attraverso la televisione: dunque una civiltà nella quale la stragrande maggioranza della popolazione non accede alla carta stampata o  ha scarsa familiarità con essa. Come è noto, una civiltà che ignori il valore della scrittura, che non abbia consuetudine con la parola scritta, che non sia in grado di fare quel salto di consapevolezza che la scrittura comporta, si priva dello strumento critico della lettura.
***
            Proviamo ora a raccontare la medesima storia della visibilità/invisibilità, quella dello sguardo che crea identità, dà esistenza e consistenza fisica, utilizzando il registro psicologico.
            Al momento attuale la nostra cultura sembra immersa in quello che nella psicologia evolutiva prende il nome - non a caso! - di “stadio dello sguardo”: la primissima fase della vita neonatale durante la quale, attraverso lo sguardo della madre e l’esperienza di contatto fisico con lei, il neonato sperimenta le prime forme relazionali tra sé e il non-sé, una traccia che si iscriverà nel corpo-mente dell’infante come prototipo delle successive esperienze interpersonali. Dal punto di vista psicologico, si potrebbe dire che la televisione sembra svolgere oggi il ruolo di “mamma sostitutiva” nei confronti dei bisogni più infantili dei telespettatori, il ruolo di figura di attaccamento primario, colei/colui che ci riconosce e che ci fa esistere: figura essenziale, della quale i tanti adulti-infanti che puntano tutto sulla visibilità televisiva cercano disperatamente lo sguardo, pena l’impossibilità di percepirsi come esistenti.
            Peccato, verrebbe da aggiungere, che in un sano sviluppo psichico la fase dello sguardo dovrebbe essere superata – e di fatto lo è - piuttosto velocemente, per dirigersi verso orizzonti psichici meno fusionali e più complessi. Altrimenti lo sviluppo della personalità rimane fissato alle fasi pre-orali dello psichismo, ottimo terreno di coltura delle forme psicopatologiche più severe (come è noto, nella fase pre-orale nascono e si sviluppano le modalità più patologiche del funzionamento psichico).
            Dunque la società dell’apparire, dell’essere riconosciuti televisivamente, se osservata dal vertice psicologico, ci porta direttamente nella nostra primissima infanzia, là dove lo sguardo materno che riconosce, lo sguardo che sostiene l’infante narcisisticamente, lo sguardo che fa esistere, forse non ha funzionato al meglio: come direbbe Felicity De Zulueta, si tratta forse di un bisogno di attaccamento andato a male?
            La necessità parossistica di riconoscimento richiesta alla televisione, quale derivato di quella figura di attaccamento, sembrerebbe testimoniare a favore di bisogni infantili irrisolti, rimessi in scena da coloro che più o meno consapevolmente hanno qualche conto in sospeso con la propria fase dello sguardo.
            Non è forse vero che il bambino piccolo che non sia stato visto né riconosciuto dai propri caregivers, pur di sfuggire alla disperante esperienza della propria non-esistenza, preferisca diventare “cattivo”, mettendo in atto comportamenti disfunzionali? A questo proposito mi viene in mente la storia di una paziente, molto sofferente per la mancanza di riconoscimento da parte dei genitori, che da piccola decise di urinare sul pianerottolo della propria casa nella speranza che i genitori si accorgessero di lei e del suo disagio. In realtà, il suo gesto non ebbe alcun effetto, confermando così i disperati vissuti di invisibilità e di inesistenza della bambina. Nella vita di quella bambina e della giovane donna che è diventata in seguito, la necessità di essere riconosciuta è rimasto un bisogno senza risposta.
            Se mi sono soffermata su questi aspetti della cultura dello sguardo, se ho voluto esplicitare alcune delle zone d’ombra, delle paure, delle violenze e delle ambiguità che la caratterizzano, l’ho fatto per rendere evidente quanto attraverso la televisione sia privilegiato soprattutto il rapporto della coscienza con le immagini esterne: un rapporto che la psicologia junghiana definirebbe di tipo estroverso, intendendo con ciò “il volgersi della libido verso l’esterno”. Per Jung infatti l’estroversione è: “[...] un movimento positivo dell’interesse soggettivo verso l’oggetto. Colui che si trova in uno stato di estroversione pensa, sente e agisce in relazione all’oggetto e ciò in una forma diretta e chiaramente percepibile all’esterno, così che non può sussistere alcun dubbio sul suo atteggiamento positivo nei riguardi dell’oggetto. L’estroversione è in un certo qual modo un trasferimento dell’interesse dal soggetto verso l’esterno, all’oggetto. [...] Nello stato di estroversione esiste una forte dipendenza, anche se non di carattere esclusivo, dall’oggetto.[...] Quando lo stato di estroversione è abituale, abbiamo il tipo estroverso” (VI, 438).
            Di segno opposto è invece l’atteggiamento introverso, quello che nel quale il soggetto privilegia il rapporto con le immagini interne: “[Nell’introversione] l’interesse non si muove verso l’oggetto, ma ripiega da esso sul soggetto. Chi è atteggiato nel senso dell’introversione pensa, sente e agisce in maniera tale da lasciare intendere chiaramente che la sua determinante principale è il soggetto, mentre all’oggetto compete tutt’al più un valore secondario.[...] Quando l’introversione è abituale, si parla di tipo introverso” (VI, 466).
            Ma che cosa sono le immagini interne? Da sempre gli psicologi del profondo, in generale, e gli psicologi analisti junghiani, in particolare, hanno rivolto la propria attenzione a questo genere di immagini, al ricchissimo mondo che la psiche inconscia produce e mette in scena senza sosta sul palcoscenico della mente. Spesso di questo mondo se ne ignora (o se ne svaluta) l’esistenza e la portata, a meno che le immagini interne non si impongano alla coscienza in modo del tutto autonomo, come avviene negli incubi, nelle ossessioni, nelle manie etc., ovvero in forme più piacevoli, come, ad esempio, nella passione amorosa, nell’intuizione artistica, nella creatività etc. Ancora oggi capita che, malgrado i fiumi di letteratura psicoanalitica e le più avanzate evidenze neuroscientifiche, la viva realtà del mondo interno venga messa in dubbio: eppure le immagini profonde svolgono un ruolo fondamentale nella costruzione e nel mantenimento dell’equilibrio psicofisico personale e collettivo, nella realizzazione del sé e di Sé, della costruzione della personalità totale.
            A proposito della realtà delle immagini interne, vorrei raccontare un fatto.
            Nel settembre del 2009, durante la presentazione di un libro che aveva come oggetto il racconto di alcune esperienze deliranti dell’autrice, tra il pubblico ci fu chi chiese, in perfetta buonafede, se l’inconscio esistesse davvero e che cosa fosse un delirio.
            Oggi nessuno oserebbe più mettere in dubbio l’esistenza dell’inconscio né tanto meno la fondamentale unitarietà della mente e del corpo: Allan Schore sostiene, ad esempio, che il sistema interno all'emisfero destro rappresenterebbe il substrato biologico dell'inconscio dinamico di Freud mentre la nuova unità di osservazione è ormai da considerare a tutti gli effetti quella del 'cervello-mente-corpo'.
            Dal canto suo, uno dei presentatori rispose che il delirio rappresentava “una maglia aperta sull’infinito”, un modo per superare i rigidi confini delle abituali concettualizzazioni filosofiche. Se, da un certo punto di vista, quest’ultima affermazione può essere vera – non c’è dubbio che il delirio renda visibile l’autonomia della psiche inconscia e dunque sveli ciò che si situa oltre i (troppo rigidi o lassi) confini della coscienza - non si può negare che nel delirio il superamento della soglia cosciente avvenga in modo molto drammatico e pericoloso per l’Io, esponendo la personalità al concreto rischio di un non-ritorno psichico, ovvero di una psicosi.
            Sicuramente per superare gli schemi abituali della coscienza, in una forma che sia evolutiva e creativa per la personalità e non regressiva e distruttiva come nel delirio, esistono altre vie, meno traumatiche e rischiose: nella psicologia junghiana una di queste è rappresentata senz’altro dal metodo dell’immaginazione attiva.
            A proposito della differenza che intercorre tra un’esperienza psichica distruttiva e una creativa, Jung scrive: “Il processo creativo, per quanto possiamo seguirlo, consiste in un’animazione inconscia dell’archetipo, nel suo sviluppo e nella sua formazione fino alla realizzazione dell’opera compiuta. Il dare forma all’immagine primordiale è in certo modo tradurla nel linguaggio presente, ed è per mezzo di questa traduzione che ognuno può ritrovare l’accesso alle fonti più profonde della vita, accesso che fino a quel momento gli era stato interdetto. In questo sta l’importanza sociale dell’arte: essa lavora continuamente all’educazione dello spirito di ogni epoca, facendo affiorare le forme che più gli difettano. […] Colui che parla con immagini primordiali è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il proprio destino personale a destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici che sempre hanno reso possibile all’umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe.” (X*, 353)
            Ciò che differenzia l’esperienza delirante da quella creativa è dunque la capacità del singolo di tradurre le immagini primordiali nel linguaggio presente. Sebbene il potere inconscio caratterizzi le produzioni sia distruttive che creative, soltanto nel secondo caso la coscienza è capace di dare al materiale archetipico una forma simbolica riconoscibile e valida per tutti, utilizzando uno strumento espressivo di altissima qualità formale quale, ad esempio, la scrittura. In questo senso, l’opera d’arte, “lavora continuamente all’educazione dello spirito di ogni epoca” e rappresenta, per il singolo e per la collettività, un processo di autoregolazione spirituale: “La vita è un criterio della verità dello spirito. Uno spirito che trascini l’uomo fuori delle sue possibilità vitali e cerchi solo l’adempimento di se stesso, è uno spirito erroneo, non senza colpa dell’uomo che ha in suo potere di concedersi o meno. Vita e spirito sono due potenze o due necessità, tra cui l’uomo è posto. Lo spirito dà alla vita umana un senso e la possibilità di esplicarsi. Ma la vita è indispensabile allo spirito, perché la sua verità è nulla, se essa non può vivere.”(VIII, 362).
            Di fronte all’impersonalità dell’esistenza e alla vita in trasparenza, mi sento di dire oggi, prendendo a prestito le parole di Jung dal suo Libro rosso: “Il mistero mi mostrò per immagini ciò che avrei poi dovuto vivere. Non possedevo alcuno dei benefici che esso mi mostrò, ma dovevo ancora acquisirli tutti” (p. 256).
***
(Le citazioni tratte dalle Opere di Jung, pubblicate in Italia da Bollati Boringhieri, sono seguite tra parentesi dall’indicazione del volume in numero romano e della pagina in numero arabo. Le citazioni da Ricordi, sogni, riflessioni di C.G. Jung, a cura di A. Jaffé, sono seguite fra parentesi dalla sigla RSR e dal numero di pagina).

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